Roy Nathanson's Sotto Voce Subway Moon

in un immaginifico habitat naturale che ha New York come sfondo e l’aspirazione internazionalista come paradigma, immaginiamo di impostare alcuni punti cardinali di riferimento: innanzitutto la parte colta della no-wave rappresentata dal lampo di stile dei Lounge Lizards e quindi, va da sé, i fratelli Lurie (Evan e John) e, di naturale conseguenza, Arto Lindsay e Steve Piccolo; inoltre, come ulteriore orientamento, si potrebbe prendere in considerazione un manipolo di musicisti che rispondono ai nomi di Marc Ribot, Greg Cohen e John Zorn (e tutta la famiglia Tzadik al seguito). per precisare ancor meglio il campo si pensi alle pellicole bianche e nere di Jim Jarmusch, ad una certa cultura ebraica che ha felicemente contagiato l’intrattenimento statunitense e, non ultima, la scena jazz bianca occidentale fra free, loft e avanguardia in perenne movimento.
in questa giungla urbana e culturale così delineata si potrà esser certi, con buona approssimazione, di incontrare anche la figura contagiosa di Roy Nathanson. sassofonista, compositore, attore, insegnante, marito e padre: di certo fomentatore e attivo promotore, da più di 30 anni,  di quella foresta urbana più sopra descritta. prima la frequentazione con le lucertole dei fratelli Lurie e di seguito fondatore dei Jazz Passengers con cui si è intrattenuto fin circa alla metà dei ’90. da lì in poi il percorso si è fatto sghembo e trasversale ed ha toccato la composizione, l’insegnamento, le apparizioni cinematografiche, la scrittura e le troppe (da citare) collaborazioni.
poi fra la fine del 2005 e l’inizio dell’anno successivo compaiono le sagome dell’ensemble Sotto Voce e il primo disco per la AUM Fidelity. naturalmente c’è Roy Nathanson alla regia. da allora il progetto ha preso spazio e tempo e si è nobilitato della presenza di nuovi e altri collaboratori e verso la fine dell’anno scorso è uscito per la Enja l’atteso seguito.

Subway Moon (Enja, 2009) è uno di quei dischi che (mi) riconcilia con la musica e con ciò che gli gira attorno a dieci anni dalla svolta del millennio. fa stare bene direbbe assai propriamente un mio conoscente.
formazione nobile impreziosita da volti noti (Bill Ware, Napoleon Maddox) e consapevoli di questo tempo e del fare (e pensare) musica in esso. Roy Nathanson, con quel ghigno sardonico alla Groucho Marx, ci ha messo del suo ed ha pensato e sviluppato una suo ragionamento a proposito del suo spostarsi nella metropolitana newyorkese, e più precisamente nella Q Line che porta da Brooklyn a Manhattan (e viceversa).
ma ciò che potrebbe far pensare ad una vera e propria colonna sonora cinematografica ha in realtà come contraltare un libro che porta il medesimo titolo del disco ed è pubblicato dalla tedesca Buddy’s Knife. i volti, le storie e le impressioni di un viaggiatore urbano diventano le tracce e le parole sulle quali costruire immaginari sonori e narrazioni acustiche.
disco prezioso e straordinario, lo ripeto; vivido e sanguigno come le menti pensanti, osservanti e curiose. e il viaggio non poteva partire meglio: Love Train assomiglia davvero ad una geniale omaggio a quella People Get Ready che invitava a salire a bordo senza biglietto, il soul come lasciapassare e un grande messaggio da raggiungere all’orizzonte. a partire da qui il viaggio si fa notturno, in quell’oscurità fittizia e artificiosa che crea la sotterranea: sferragliare di vagoni e binari, raglio di rotaie e soffioni d’aria che si incanalano nei tunnel. un jazz bianco che non trascura le narrazioni spoken di Nathanson, il free compunto e melodico, vaghissime influenze klezmer e gospel; assoli di buskers all’arrivo delle scale mobili, strascichi d’opera e contaminazioni black dalla beatbox umana incarnata in Napoleon Maddox. e poi pioggia, brandelli di conversazione, annunci ai viaggiatori che sgocciolano dagli altoparlanti, rapidità, movimento e andature dinoccolate. fa piacere poter ascoltare (e vedere) Roy Nathanson che racconta qualche faccenda sgangherata a proposito del disco e della sua esistenza in genere…

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al terzo (o quarto) ascolto cominciano a sbucare dalle gallerie della memoria sensazioni già vissute, fotogrammi già visti, memorie di suoni e giorni passati e futuri. niente panico: gli scambi, gli snodi e le traiettorie sono talmente tante che non vale la pena mettersi a vidimarle tutte, piuttosto è bene considerare la subway come entità circolare, con andate e ritorni, arrivi e partenze, come le nostre vite. sensazione straniante e paradossale, certo, come rimirare la luna nella sotterranea.
in poche parole uno dei grandi dischi “mancati” dell’anno scorso: se solo non avessi perso la coincidenza!

People get ready, there’s a train comin’
You don’t need no baggage, you just get on board

Roy Nathanson’s Sotto Voce Subway Moon

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