assai più del crowd funding con il quale è stato sponsorizzato il progetto, la maggiori curiosità riguardo al nuovo progetto di Anthony Joseph vertevano sull’illuminata (e lieta) collaborazione/produzione con la stimatissima (Joseph non ne ha mai fatto mistero) Meshell Ndegeocello. credo fosse lecito, da fan, immaginare: è quanto ho incominciato a fare non appena avuta la notizia di questa collaborazione. ma la musica immaginata (soprattutto se si è sulla sponda fruitiva) non ha l’efficacia e l’appeal di quella udita, e aggiungo per fortuna! confesso però che attendevo una qualche rivoluzione nella carriera del poeta caraibico da qualche anno felicemente approdata ad una cifra personalissima e riconoscibile nutrita di spoken poetry adagiata su di una miscela incandescente di afrofunksoulcarribean (tuttoattaccato) di natura finissima e ad alto contenuto danzereccio.
cosicché non appena mi è giunto Time (Naïve, 2014) la prima impressione è che non molto fosse cambiato dal punto di vista musicale: ma dal punto di vista poetico e narrativo sì, eccome! è lo stesso Joseph a raccontare come la volontà produttiva di Meshell Ndegeocello ha spinto in maniera inequivocabile verso l’attitudine verbosa del nostro eroe. una voce narrante in primo piano a raccontare quelle storie che da sempre rappresentano l’anima dell’arte dello scrittore (e musicista) di Trinidad, come se si trattasse di word-sculptures. e in effetti pare di avere per le mani (e fra le orecchie) un libro di novelle, 11 racconti indipendenti a rilegare una raccolta di racconti. storie di ordinaria quotidianità, di fragilità femminili, di lotta, di politica e di autodeterminazione afroamericana, fantasmagorie di un griot visionario, epopee di schiavitù e piccoli haiku di gioia epifanica.
sia ben chiaro la musica c’è e finge solamente di starsene in disparte: il funk, i ritmi caraibici, vaga elettronica e un pulsare costante del ritmo, dal basso ventre a spingere sangue e suoni a sostegno della lingua che declama. possono sembrare musiche disomogenee e disgiunte ma sono solo undici sfaccettature di un solido che ha nella blackness più profonda il suo fulcro portante.
il primo singolo Tamarind potrebbe trarre in inganno (ma il commercio ha le sue regole): è forse il brano del disco che più si discosta dal flusso più umorale e pulsante del disco, ma l’appeal radiofonico e la malìa dei due protagonisti non si discute.
il disco continua a girare ascolto dopo ascolto e si fa viva la sensazione che l’elaborazione del lutto per la scomparsa di Amiri Baraka abbia trovato un primo appiglio per provare a rialzare la testa e lo spirito.
non vorrei esser frainteso: siamo al cospetto di un ottimo disco e di certo di un grande interprete di questo tempo e degli anni che verranno.
buon ascolto
Anthony Joseph Time
Ma la richiesta di dare nuova vita al link è un abuso eccessivo della sua cortesia?
no, non lo è, se la si associa ad altrettanta pazienza.
a presto