c’è stato un tempo in cui ho creduto che al jazz toccasse la stessa sorte del rock: la morte, quella brutta e un poco triste. quella che arriva per sfinimento di ideali, mancanza di sogni e fallimento di progetto. un trapasso reso ancor più gretto da parrucconi e baracconi sostenuti a forza malgrado l’inconsistenza del messaggio e il cambiamento inevitabile dei tempi.
ho temuto, dicevo, che anche all’adorato jazz potesse accadere e forse ci si è andati vicini più di una volta: vuoi certa fusion che ascoltata oggi fa letteralmente inorridire e vuoi la stanca e trita ripetizione di standard e stili che non fa altro che apparentare una musica nata per vocazione di libertà a quell’altro baraccone reiterante che è il mondo dell’opera e della classica più stantia. ma come ammonisce il mio amico Jazz from Italy: Il jazz ti insegna la libertà o non ti insegna nulla e per fortuna qualche paladino di questo messaggio non ha mai smesso, come un hidalgo di Cervantes, di tramandare verbo e suono attraverso tempi e luoghi, fottendosene di gloria, fama o denaro. Anthony Braxton, Cecil Taylor, Don Cherry, Ornette Coleman o Sun Ra per non fare nomi, fino a giungere a quella città ventosa che diede i natali all’Art Ensemble of Chicago e sparse spore ai quattro punti cardinali. in quella stessa città, come Marcovaldo nell’urbe, Rob Mazurek deve essersi accorto dei funghi che crescevano un poco ovunque e deve essersene saziato con voluttà.
a lui oggi il compito (ed il merito) di portare oltre un messaggio antico e di non far morire la musica più libera, anarchica e irriverente che mi sia mai capitato di incontrare. e non credo certo di essere il solo. di Rob Mazurek si potrebbe parlare a profusione perdendosi nei meandri di una carriera oramai decennale, in progetti che moltiplicandosi producono senso e bellezza. ma io posso qui solo soffermarmi sull’ultimo, in ordine di tempo, che giunge come un balsamo vitale a rinfrancare cuore e padiglioni auricolari di coloro che hanno a cuore questa musica.
Boca Negra è il quinto episodio del Chicago Underground Duo; esce per l’etichetta Thrill Jockey di Chicago, ovviamente. quinto lavoro per il duo in mezzo ad altri episodi dell’intero collettivo in assetto variabile, ma qui siamo di fronte ai soli Rob Mazurek ed a Chad Taylor. il primo si divide fra cornetta, flauto e programmazione, mentre Chad Taylor prende per mano bacchette, percuote il vibrafono, disegna linee al basso, utilizza la sua mbira e martella il pianoforte oltre a prendersi cura di elettronica e bellezza varia assortita.
disco registrato a San Paolo sotto l’egida di Matt Lux, dove Mazurek risiede da qualche tempo, nell’arco di tre anni a causa dei diversi impegni dei due (tre). è nato un dialogo in bilico fra raziocinio e improvvisazione, brani originali ingentiliti da un omaggio a Ornette Coleman con una cover del brano Broken Shadows. è il frutto di due teste pensanti, consapevoli, adulte e conscie della bellezza di un rapporto duplice e mai banale che si sviluppa in dieci composizioni diversificate, distinte e disperse. sono talmente tante le piste tracciate che a raccontarle si rischia lo smarrimento, tante le direzioni additate, eppure una coesione di suono e intenti stupisce per lucidità e lungimiranza. non mi metterò certo qui a raccontare il free e le sue ascendenze: è un po’ come quando il prete prova a spiegare la trinità o lo spirito santo, o ci credi o non sarà certo lui a convincerti.
mi accontento di fare un punto nave e dire che siamo in qui ed ora dove Africa, Don Cherry e il Miles che sarebbe potuto essere convivono assieme ad una blanda elettronica, visioni notturne e a quel messaggio primigenio che il jazz non deve smettere di trasportare; del resto le coordinate che i due musicisti stanno spargendo per i sette mari portano a Marc Ribot o agli Iron & Wine, passando per i Digital Primitives per giungere ai Land of Kush. in ogni caso ciò che conta è che il disco è qui e molto presto lo sarà anche Rob Mazurek per il tour di quell’altro suo capolavoro che è Sound Is: credo se ne riparlerà.
Ottimo post come sempre, e dato che il nuovo Chicago Underground era in forse nella borsa della spesa sciolgo le riserve e mi accingo a ordinarlo seduta stante. Grazie.
(ti) confesso di avere una vera e propria idolatria nei confronti di Mazurek e di considerarlo l’avanposto di un battaglione di spregiudicati sperimentatori che però non hanno perso i contatti con l’idea di forma (armonica o melodica). una specie di prosecuzione naturale di quel tragitto tracciato dai nomi che ho speso nel post. Mazurek lo sa fare da uomo del terzo millennio e considero ogni sua nuova produzione un segnalibro fondamentale da interporre alle pagine di questo tempo contemporaneo.
Sound Is, che ho citato testè, è semplicemente straordinario.
ma lascio a Fabio la gestione della sua borsa della spesa.
a presto
D’accordissimo borguez!!
Disco che fa soffiare tra i capelli venti di libertà, anche a chi i capelli non li ha!!
Thanks.
Pingback: 2010 | borguez