sarà bene ammettere che la bulimia di ascolti discografici indotti dalla rete può produrre effetti disturbanti se non associata ad una coscienza salda o ad una educazione formatasi precedentemente a questa cuccagna. ma mi limiterò ad ammetterlo senza sventolare la bandiera del si stava meglio quando si stava peggio: resto nel mio e provo a decifrare ciò che accade nel mio piccolo orto con quella coscienza di cui sopra. ho già affermato (stupito) di non aver mai ascoltato così tanta musica come negli ultimi dieci anni e di come questa terapia d’urto autoindotta non abbia fatto altro che acuire l’indomita necessità di ascoltare di tutto, e di più, senza precludermi nulla. senza bisogno di generi o di etichette: da Cornelius Cardew ai tergicristalli dell’auto passando per Gabriella Ferri. e poi tutto l’enorme che ci gira attorno.
semmai quella bulimia mi ha spinto ai margini dei miei stessi ascolti alla ricerca dello stupore, dell’epifania e del disco bastian contrario che sovverta e confermi le mie inclinazioni. l’inatteso che non sapevo di attendere o il particolare peculiare che mi fa bisbigliare ma certo! e mi rassicura il fatto di continuare a scovare dischi così, come questo Rain In England (Weird Forest, 2010) di Lil B.
confesso di non aver mai smesso di tendere l’orecchio alla ganga dei vari rapper che si sono susseguite vorticosamente negli ultimi anni, certo che quella stessa comunità afroamericana che partorì il blues, il jazz e (anche) il rock’n’roll andava tenuta d’occhio per sapere dove sarebbe andata a parare la storia della musica di questi anni duemila che già compiono un decennio.
non conosco certo gli acronimi di tutti i rapper, le loro vicende, e neppure gli stili che rimbalzano da costa a costa, ma so ancora distinguere un beat ed un flow, conosco l’effetto che mi possono procurare e la parentela di sangue con le musiche che hanno affollato il ‘900.
così per il verso contrario e per il sovvertimento di certezze credute questo lavoro di Lil B (fino a ieri uno dei tanti nomi, lo devo ammettere) arriva a sferzare la mia curiosità e a sorprendermi per difetto: less is more. un lavoro di un rapper sciorinato in 14 declamazioni in cui splende l’azzenza di un solo beat, l’assenza di uno scratch e con la spia del campionatore rigorosamente spenta.
un sintetizzatore da modernariato sostiene lo spoken privato del ragazzo (21 anni) creando un contrasto talmente inopportuno da sembrarmi perfetto. pare ambient fatta male, new age di terza mano, ma l’egocentrismo del rapper ricuce questi svolazzi kitsch e li tiene assieme con la sfrontatezza e la sfacciataggine tipica degli idoli della comunità hip-hop.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=tzS0dc3n6-Q]
nascita, morte, salute, ambiente, famiglia, odio, amore, business e naturalmente le amate donne sono le tematiche sulle quali si esprime il virgulto predicatore. opinioni con le quali non è certo rigorosamente necessario concordare: ma il disco si beve tutto d’un fiato e lentamente si insinua con i suoi riff orfani di beat ed il suo soul liofilizzato che rinviene e si gonfia a suon di parole del nostro giovinastro.
peace!
Lil B Rain In England part 1
Lil B Rain In England part 2
Sai, borguez, che questa copertina mi aveva colpito? Tazzarra al punto giusto, ma con quella specie di alone spiritual-metafisico…;)
Ad ogni modo è un’epifania anche per me, non ho mai ascoltato nulla di simile. Interessante eccome il contrasto tra i fondali ambient e lo spoken word…proverò! Mi viene un dubbio però: dici che questa musica è in grado di reggere un disco intero?
Grazie come al solito 🙂
intendiamoci… non è D’Angelo e neppure Amiri Baraka, non è Gil Scott-Heron e manco Chuck D, ma è curioso quanto basta per farlo girare nell’etere mentre si è in altre faccende affaccendati.
in tempi bulimici (come ho detto) qualcosa che fermi l’attenzione e ti faccia incuriosire è assai meglio di niente. ha tutta l’aria di quei dischi feticcio che i nipotini scopriranno fra 30/40 e grideranno al miracolo. stupirsi oggi è già un buon segno che siamo pur sempre attenti (e non sazi… con la “S”).
p.s. assai grazie per il Fahey celebrato sulle sponde del tuo blog.
Sul rap mi gettai ai tempi dei Grand Master Flash e Public Enemy. Poi ho avuto il rigetto.
Ormai è una galassia talmente varia e complicata che è sempre più difficile distinguere.
Interessante la scena londinese che ruota attorno a Rinse FM la radio pirata londinese che dopo 16 di clandestinità è diventata legale. Sabato è uscito un bell’articolo su Alias. Comunque fra generi e sottogeneri è una giungla.
giungla, non vi è dubbio, l’ho ammesso pure io.
ma saltuariamente mi giunge qualcosa e risveglia la stessa passione di quei tempi epici che citi tu. infatti non ho desideri di completezza ma semplicemente quello di tenere le orecchie accese sul “ghetto”.
e adesso mi vado a fare una panoramica su quella radio.
a presto
Oh, prego, anzi, è sempre un piacere perchè so che ci sono persone in grado di apprezzarlo 😉
Sì, dall’assaggio su YouTube ho captato che non si tratta del nuovo D’Angelo e nemmeno del nuovo Gil Scott-Heron 😉 Però hai ragione, è quanto meno peculiare e si candida a disco feticcio del futuro.
Io invece, sempre restando in tema hip-hop, rimango basita nel leggere certi commenti, a mio parere eccessivamente entusiastici, riservati al cosiddetto hip-Pop, che non è hip-hop duro e puro ma nemmeno una schifezza stile r&b/black plasticoso da classifica. I vari Kid Cudi, Kanye West per intenderci…boh, a me sembrano sempre sopravvalutati…sarà che ultimamente ho ascoltato troppo A Tribe Called Quest e Arrested Development 😛 Però gente come OutKast, o semplicemente uno come Albarn nella sua incarnazione Gorillaz a mio avviso bagnano il naso a tutti questi ‘infanti prodigio’. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa un masticatore di musica nera come te 🙂
A Tribe Called Quest, Arrested Development, OutKast… che dire? nulla da eccepire.
osservo il “ghetto” hip hop blandamente e cerco di incuriosirmi solo se necessario: se mi chiedi dei nomi ti dico senza esitazioni Mos Def e EarPeace (di cui attendo il debutto sulla lunga distanza). mi sono piaciuti. niente di più, niente di meno.
d’accordo con te sul neo/soul/r’n’b che fatica a distinguersi da se stesso e d’accordo pure sui neo Hip Pop di cui non mi preoccupo più di tanto.
ripeto quello che ripeto a me medesimo: da quelle parti, ogni tanto, saltano fuori gioielli splendenti. è bene continuare a tenerli d’occhio. panoramicamente.
Tenere sotto controllo la situazione, questo sì, senza dubbio. Sono confortata, comunque, che la pensiamo allo stesso modo per quanto riguarda i lidi hip-(p)hop.
Mos Def assolutamente, EarPeace non lo conosco! E aggiungerei l’ottimo Shafiq Husayn (che già conosci, ne sono certa); bella anche la versione strumentale del suo album En Afreeka 🙂
certo Shafiq e certamente tutta la gang della Stone Throw, ma loro in qualche modo sono già assai più oltre e fuori dal “ghetto” hip-hop. ossia li considero già altro e di più. sempre a mio modesto parere.
orecchie aperte in ogni caso.
a presto
Non avendo la benchè minima idea di quali differenza bai-passi tra un ‘flow’ e un ‘beat’ temo, da cocciuto quanto vetero-scalcagnato sfascialamiere da mezzo tallero [quale mi pregio d’essere], di dover continuare a preferire l’immarscescibile sinfonia scaturita dallo sbilenco tergicristallo se non proprio la invereconda “Dove Stà Zazà”. Sempre un piacere leggerVi. Or Vuar.
beat+flow=shakin’ your ass!
si diceva un tempo It Don’t Mean A Thing…. e il discorso non è cambiato poi tanto. immagina James Brown con una sezione ritmica fiacca o Prince senza singulti: non varrebbero poi molto.
sono lieto delle tue letture e ti tranquillizzo dicendoti che nulla è necessario e tutto è indispensabile: si blatera di quello che mi passa per la testa, ma sono il primo a non prendermi troppo sul serio.
il tergicristallo resta notevole però.
a presto