era il 21 aprile del 2014 quandoSteve Buscemi e Elliot Sharp salirono sul palco dell’Issue Project Room di NY per una performance all’interno del WSB100, un calendario di eventi per celebrare il centenario della nascita di William S. Burroughs.
una manciata di fogli, un leggio, un microfono per Buscemi. una chitarra ed una serie di aggeggi elettronici per Sharp. ad unirli la passione ed il tributo ad una delle più importanti figure della cultura americana (e non solo) del ventesimo secolo!
i testi scelti da Buscemi fra la vasta produzione di Burroughs sono figli di una scelta consapevole, vissuta e profondamente studiata: Buscemi ebbe modo di conoscere e condividere idee con il grande scrittore prima della sua scomparsa nel 1997 e la sua passione continua a cimentarsi nei riguardi di the pope of dope (è in lavorazione un’adattamento cinematografico di Queer da parte del regista/attore newyorkese).
Elliot Sharp è un patrimonio della scena alternativa americana, capace di materializzarsi a fianco di prestigiosi progetti d’avanguardia da 40 anni a questa parte: alla chiamata di Buscemi ha risposto pronto con il suo armamentario di suoni ed atmosfere, chitarre grattate, loop claustrofobici: materiale che avrebbe volentieri portato alla corte di Burroughs (in persona) se non ci si fosse messa di mezzo l’anagrafe e le tante vigliacche vicissitudini della vita!
la registrazione di quella performance/tributo è divenuta un disco di recente uscita per l’etichetta cittadina Infrequent Seems. Rub Out The Word (2016) è esattamente l’esercizio già sperimentato da Burroughs di declamazione ed evocazione della celebre pratica letteraria del cut-up, così come lui stesso aveva fatto in prima persona in vari dischi e collaborazioni con quella sua voce nasale immediatamente riconoscibile e cifra inscindibile della sua arte e della sua rappresentazione.
ma questa volta sul palco c’erano Steve Buscemi e Elliot Sharp! e questo omaggio sincero a certa intellighenzia criticante non è andato a genio (leggi Pitchfork o il numero 392 di The Wire) per l’ovvietà, la mancanza di innovazione (ad ogni costo) o la pedissequa riproposizione di una formula che il suo ideatore aveva già condotto a livelli di assoluta eccellenza.
in effetti ci vuole una bella dose di coraggio a riproporre i testi di Burroughs con una voce diversa da quella che ciascuno ha in modo permanente fissata nella memoria; ma è proprio in questo coraggio che si nasconde l’omaggio appassionato e rispettoso. mi frulla nella testa un paragone (forse) inopportuno: sarebbe come se qualsivoglia attore teatrale italiano si cimentasse nella riproposizione dell’opera di Carmelo Bene volendone imitare cadenze ed intonazioni. alquanto improbabile e del tutto inutile!
eppure il duo Buscemi & Sharp è credibile, sincero e onesto: raccoglie gli applausi del pubblico e getta il cuore oltre il totem della figura di Burroughs, della sua natura di classico imprendibile e dell’imponderabile valore di un precursore non ancora completamente raggiunto dai suoi eredi: perché gli eretici hanno sempre avuto vita difficile anche da morti! e a proposito di eretici sono forse più congeniali a certa critica i recenti lavori di Anne-James Chaton + Andy Moor + Thurston Moore o quello di Yannis Kyriakides che hanno sempre l’opera di Burroughs come orizzonte irraggiungibile. ma tutti e tre i lavori raccontano la medesima sfaccettata enorme figura!
per cui un plauso a Steve Buscemi e a Elliot Sharp.
buon ascolto
mia figlia si sta incuriosendo nel mescolare i colori per scoprire cosa possa saltar fuori pastrocchiando quello con questo, lo fa scarabocchiando e schiacciando tubetti di tempera: risultati spesso mirabolanti in cui si esercita pure a livello teorico interrogandomi su cosa succederebbe a miscelare una tinta con un’altra. non sempre ho la risposta pronta e forse non le interessa neppure troppo: è l’esercizio immaginifico e mirabolante che l’appassiona, come del resto a me ha sempre appassionato mescolare i suoni delle lettere in una specie di fantafonetica per ascoltare che suono farebbe l’incestuoso connubio di due vocali. esercizi futili (sono pur sempre i miei favoriti) che ho associato all’ascolto di un disco che mi è capitato fra le orecchie e che si vanta di essere il primo eseguito su di di un revolutionary acoustic musical instrument! di cosa stiamo parlando? Geoffrey Smith è un musicista di Brighton (classe 1961) considerato uno dei più virtuosi suonatori di hammered dulcimer: la sua esigenza di trovare nuove intonazioni per il suo strumento lo ha portato a costruirne di sua sponte per ottenere un’intonazione fluida (fluid tuning), ossia un modo per ottenere suoni microtonali che esulassero dal sistema temperato. un’idea tira l’altra ed ecco che il nostro, trovando appunto rivoluzionaria la sua intuizione, decide di applicarla allo strumento principe della musica occidentale: il pianoforte!
un lavoro lungo che ha coinvolto liutai e teorici, iniziato più di dieci anni fa è giunto di recente alla realizzazione di quello che da ora in avanti verrà battezzato The Fluid Piano. senza entrare specificatamente nei dettagli tecnici, si tratta di un pianoforte che ha la possibilità di intonare la nota suonata (percossa dal martelletto) a piacimento, spaziando in quell’ambito tonale che separa i gradi della nostrotemperamento equabile. dico nostro perché è arcinoto che ad altre latitudini esistono scale ed intervalli diversi e forse proprio qui risiede la portata internazionalista dell’intuizione teorica di Geoffrey Smith: un uovo di Colombo che in un sol colpo ricongiunge la diaspora sonora delle molteplici tradizioni musicali sparse per il globo. orizzonte amplificato e allo stesso tempo limite di un’operazione teorica slegata dalle implicazioni storiche e culturali che quelle stesse tradizioni hanno creato.
inventate le ali ora si tratterebbe di trovare qualcuno in grado di volare! e qualcuno in effetti si è fatto avanti: Utsav Lal è un giovane e talentuoso pianista indiano che da par suo stava intraprendendo un percorso associabile a quello di Smith, ossia sta tentando di introdurre il pianoforte all’interno di quel santuario che è la musica classica indostana. i due si sono incontrati, annusati e hanno scoperto a vicenda che erano fatti l’uno per l’altro.
nasce così The Fluid Piano (Fluid Piano Recordings, 2016) il primo disco pensato, suonato e concepito per un revolutionary acoustic musical instrument. ci sarà voluto un discreto tempo per apprendere una tecnica del tutto nuova da applicare a questo novissimo modello di pianoforte, ma forte della sua educazione immersa nei raga della tradizione indiana ecco nascere un suono verosimile, possibile e a tratti persino bello.
è assai probabile che il disco non sposterà di un millimetro l’asse su cui ruota la storia della musica, non la scinderà in un prima e neppure in un dopo anche perché del tutto svincolato da quella stessa Storia (con la maiuscola), ma l’aneddotica si nutre anche di questo e lo spiraglio di svariate possibilità che potrebbe aprire questo manufatto andava in qualche modo annotato.
forse la tecnica (specifica di questo strumento) è ancora un poco primo primordiale, forse se proprio si avesse voglia di un raga si saprebbe con certezza dove rivolgere le orecchie, ma la novità – ed il coraggio cocciuto di Geoffrey Smith – credo valgano il biglietto.
del resto cosa si ottiene mescolando il viola e l’arancione non lo si sa finché non lo si prova.
buon ascoouolto
non ci speravo quasi più! non pensavo che quell’incontro fascinoso e fulminante che fu Heavy Ghost potesse davvero avere un seguito! incontrare una seconda volta certi amori conosciuti in qualche notte lasciva non è affatto scontato; non lo è quando sono passati sei anni di questi tempi urgenti in cui il prossimo istante è già un poco in ritardo. ma di DM Stith mi innamorai per davvero, di quell’anima annuvolata ed oscura capace di abbozzare la propria inquietudine in forma di canzone. amore univoco il mio, che a distanza scrutava i passi sparsi a fianco di Sufjan Stevens, nel progetto The Revival Hour, ad aprire i concerti di Julia Holter e di Yann Tiersen o a prestare la propria voce a William Ryan Fritch, attendendo che la sua arte si manifestasse nuovamente nuda e sola, singolare e cruda.
racconta DM Stith di un blocco creativo seguito all’inattesa attenzione che ebbe il suo primo disco, un’impasse curata con collaborazioni, traslochi atlantici e con progetti grafici, ma soprattutto con disegni, fogli bianchi da scarabocchiare ed annotare per ripercorrere a ritroso la vena che dal segno portasse alla parola, alla voce e al suono.
la sua anima acustica si è invaghita di alcuni aggeggi elettronici, sintetizzatori con cui elaborare bozzetti sonori e costruire tappeti per la sua voce eterea sempre in bilico fra il falsetto ed il sussurro. una manciata abbondante di acquerelli elettrici portati al cospetto di Ben Hillier per realizzare il famigerato secondo disco.
Pigeonheart (Octaves/Outset, 2016) vede così la luce per l’etichetta personale di DM Stith sotto forma di dodici brani (dieci canzoni e due bozzetti) screziati di elettronica e da pulsioni elettriche che innervano l’anima acustica dell’autore americano. sei anni sono lunghi, in sei anni si cambia e si muta ma non fino a non riconoscere quella voce (pressoché costantemente) doppiata a creare un madrigale intimo per raccontare l’incertezza claudicante del vivere. ci sono tentazioni dance (Sawtooth), un sabba elettrico/tribali evocati da turbolenze private (Rooster), canzoni travestite con echi sintetici (Human Torch, My Impatience, War Machine) e ballate benedette da una bellezza attonita (Summer Madness, Up to the Letters, Cormorant): e poi quel rincorrersi inquieto di voci (delle stesse voci) in una tentazione contemporanea (Ligeti? Pärt?) che racconta assai delle anime molteplici racchiuse dietro lo sguardo sperso di David Michael Stith (Pigeonheart, Amylette).
e allora eccolo l’incontro inatteso a cui segretamente pensavo. rivedo DM Stith, lo ricordo malgrado la maschera elettronica ed il vestito cangiante, ne riconosco la voce che si rincorre inquieta a perdifiato e ritrovo quella cifra inconfondibile che è di pochi (cant)autori contemporanei. inconfondibile come il cuore di un piccione che gruga.
non ci speravo quasi più! buon ascolto
i vinili si impolverano, i cd si impilano in pericolosi equilibri e gli hard risk si imbottiscono in un’ingrasso sconsiderato; e come se non bastasse le orecchie restano due, il tempo uno solo – scarnificato e stropicciato – e la memoria raminga e sempre più labile. tutte queste condizioni giocano a sfavore di Alain Péters!
ma poi arriva un disco a sparigliare i ricordi e a far riemergere dall’oblio la musica di un misconosciuto isolano dell’Oceano Indiano, come una bolla di meraviglia che dal fondo del mare della memoria risale in superficie. ma credo sia meglio procedere con ordine.
Wati Watia Zorey BandMoriarty & Friends presents Zanz In Lanfér (Air Rytmo, 2016) è il disco in questione, giuntomi all’improvviso e scovato per le solite vie impervie che amo percorrere. probabilmente i nomi dei titolari sono misconosciuti ai più (e non è certo un problema): la denominazione Wati Watia Zorey Band è una formazione nuova di zecca nata dalla collaborazione fra Rosemary Standley (voce del gruppo franco-americano Moriarty) e Marjolaine Karlin (cantautrice rock francese) nata nel 2008 a margine di un concerto di maloya a La Réunion. le due cantanti, complici i tanti viaggi ludico-culturali nell’isola, scoprono di condividere la passione per la musica di Alain Péterse da lì a realizzare un omaggio all’idolo condiviso il viaggio è breve. coinvolgono con loro Arthur B Gillette (chitarre), Thomas Puéchavy (armonica e scacciapensieri), Rémi Sciuto (sassofoni) e Salvador Douézy (percussioni) e danno vita a Wati Watia Zorey Band: sulla copertina del disco, come in una carta da gioco, il gruppo compare in alto e la figura in basso rovesciata è naturalmente quella di Alain Péters. ma come dicevo più sopra procederei con ordine e cautela, e momentaneamente accantonerei questo di disco per risalire a ritroso verso la figura ispiratrice dell’opera.
Alain Péters per la sua vita sin troppo breve, per la lontananza geografica dell’epicentro egemonico-culturale dell’occidente, per l’epoca selvatica che ha attraversato fra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80 e soprattutto per quel cono d’ombra che la rete ha riservato a coloro scomparsi troppo a ridosso della sua rivoluzione (la fine degli ’80 ed il principio dei ’90) è stato destinato ad una consacrazione postuma ben più grande di quella che avrebbe mai immaginato nella sua vita terrena (cose che capitano, leggi Robert Johnson, Nick Drake o Jeff Buckley). nato a La Réunion nel 1952 ed iniziato alla musica dal padre (tassista ed orchestrale) decide ben presto che la vita d’artista avrebbe fatto al caso suo. si innamora della chitarra e del basso e fa in tempo a crescere con i ritmi e le melodie isolane (maloya, séga) e la poesia creola prima che la sbandata generazionale non invogli tutti ad adottare i ritmi anglo-americani del rock ed eccolo quindi facente parte di gruppi come i Lords, poi i Pop-Décadence ed infine, sulla metà dei ’70, nei Satisfaction di chiaro impianto progressive. il suo primo vero gruppo, in cui inizia anche a scrivere i testi e a cantarli, sono però i Caméléons.
sul finire dei ’70 farà parte ancora di un’ultimo gruppo (i Carrousel) prima di avviarsi alla carriera solista e di fare un’incontro assai importante per la sua carriera, quello con Jean Albany (poeta creolo e vero e proprio mentore di quella cultura) che gli affiderà la direzione musicale per una sua musicassetta in cui recita ed interpreta alcuni poemi (e nella quale troveranno spazio anche due composizioni poetiche dello stesso Péters). in quello stesso periodo però perde il padre e vede sgretolarsi il suo matrimonio che farà allontanare definitivamente la moglie Patricia con la sua unica figlia Ananda: la cura consolatoria di questi dolori saranno, d’ora in avanti, rhum e zamal (varietà locale di erba: quell’erba!) fino ad un’alcolismo devastante che in una quindicina d’anni lo condurranno ad un’arresto cardiaco all’età di 43 anni (nel 1995). ma questi quindici anni sono anche quelli più creativi e selvatici: alcuni amici ed appassionati riescono a portare Alain Péters davanti ad un quattro piste (siamo nel 1981) e fargli incidere una manciata di canzoni che vedranno la luce soltanto nel 1984 in musicassetta con il titolo di Mangé pou le cœuraccompagnate da un libretto di poemi dallo stesso titolo (Mangé pou le cœurPoèmes et chansons créoles).
queste registrazioni rappresentano probabilmente la summa dell’opera di Péters: l’artista fa praticamente tutto da sé, sovraincidendo basso, percussioni di fortuna (si narra di bidoni in plastica e paccottiglie varie), cori, voce, chitarra e la takamba (strumento a tre corde tipico dell’isola) che dona al tutto quella magia esotica capace di trasportare altrove le composizioni di Alain Péters. ritmi dolcemente ipnotici, melodie intonate come nenie, una voce soave e flebile che rivela la natura fragile di un’anima tribolata: una miscuglio spurio fra una ninna-nanna ed un mantra psichedelico con la precisa sensazione di ascoltare sullo sfondo lo sciabordio del mare ed il cullarsi reciproco delle onde. gli isolani, che considerano oramai Alain Péters un patrimonio nazionale, asseriscono che queste musiche non possono essere ascoltate lontano da quel mare che gli fa da sfondo (e magari! risponderei io).
gli anni che seguono sono impervi di tentativi di disintossicazione, servizi sociali e registrazioni sporadiche: alcuni amici tentano allora di allontanarlo dall’isola natia, per avvicinarlo al mercato francese e ad un possibile lancio internazionale ma due soggiorni – a Marsiglia e a Parigi – si rivelano disastrosi. Alain Péters si perde nella sovrabbondanza di bistrot e di superalcolici e l’unica soluzione si rivela quella del rientro in patria. In un ultimo guizzo di orgoglio e creatività, siamo nel 1994, riuscirà in una grande rentrée con due concerti memorabili in due teatri (Palaxa e Théâtre de Saint-Gilles) testimoniati poi in un dvd postumo e in servizio celebrativo alla tv francese.
Alain Péters muore il 12 luglio 1995, fulminato a 43 anni da un infarto in una notte di luna piena. da quel momento inizia ad ingigantirsi a dismisura la gloria postuma di un poeta creolo capace di raccontare La Reunion, la sua magia, mescolandola con il jazz, i ritmi degli schiavi e ad innaffiare il tutto con barili di rhum e di bellezza.
è il 1998 quando l’etichetta discografica nazionaleTakambaassieme all’intercessione dell’amico Loy Ehrlich mettono insieme una compilazione di brani di Alain Péters che lo renderanno finalmente noto al mondo intero. Parabolér (Takamba, 1998) racconta sin dal titolo la capacità di cantastorie locale che incarnò Alain Péters: di incerta correttezza artistica le molte sovraincisioni di percussioni, basso e voci operate dallo stesso Ehrlich, ma il disco racconta in maniera formidabile la parabola di una carriera, ed è sin da subito un disco fondamentale per raccontare una storia sin troppo nascosta al mondo.
visto l’esaurimento di Parabolér e le sporadiche polemiche sull’integrità delle registrazioni originali l’etichetta Takamba decide di pubblicare Vavanguèr (Takamba, 2008) ripristinando le edizioni originali, aggiungendo alcuni inediti ed allegando al disco un libretto di 56 pagine ed un dvd con immagini inedite, interviste, stralci dall’ultimo concerto e tributi assortiti. il disco ripercorre perlopiù la scaletta del primo ma lo integra e si rivela anch’esso necessario per gli appassionati (ndr credo sia gioioso averli entrambi!).
nel 2003 invece si diede il via ai tanti dischi tributo ad Alain Péters. Rest’la Maloya: Hommage à Alain Peters (Cobalt, 2003) contiene le registrazioni di due live (del 2000 e del 2001) che amici e celebrità della musica della Reunion vollero tributare al loro maestro. Loy Ehrlich, Joël Gonthier, René Lacaille, Bernard Marka, Tikok Vellaye, Danyel Waro tutti assieme per suonare la musica che li ispirò e che in qualche modo rappresenta l’orgoglio nazionale. naturalmente come tutti i tributi (malgrado l’entusiamo e la perizia tecnica dei musicisti) credo vada posizionato un paio di gradini più sotto rispetto alla conoscenza diretta della fonte.
solo ora credo si possa tornare al disco tributo da cui sono partito e doverosamente ringraziarlo per aver scoperchiato la memoria dimenticata di Alain Péters che avevo relegato nel fondo di qualche scansia della mia memoria. credo sia anche superfluo stabilire le precedenze di ascolto (la fonte pura e virginale è preferibile al rubinetto metropolitano) ma ciascuno credo possa abbeverarsi come crede.
Alain Péters è di una bellezza dolce e purissima, un balsamo per lenire gli smarrimenti dei naufragi, un distillato per affogare gli incespichi del navigare. lasciarsi dondolare dai suoi ritmi e dalla sua voce procura ben più di un sollievo, e allora, ricordando l’idea di un disco per l’estate, io ci metto il disco, voi l’estate (quella che volete).
buon ascolto
in un tempo di connessioni immediate e subitanee non era difficile pensare che Sun Araw e Laraaji si sarebbero prima o poi incontrati. era probabile, ma non scontato!
del resto in questo stesso tempo accelerato si possono immaginare, almeno in ambito di musiche altre, collaborazioni implausibili come in un gioco di fanta-performance estemporanee in cui musicisti più o meno contigui entrino in contatto per generare ibridazioni, fusioni e novelle commistioni. e del resto, a ben pensarci, Edward Larry Gordon e Cameron Stallonesun terreno comune potrebbero anche averlo, o piuttosto un’orticello selvatico confinante con le prime periferie del cosmo ed alcune derive della coscienza psicotropa e meditabonda. un fazzoletto di terra accatastata sotto il nome di ambient, psychedelia, drone ed elettronica buona per cogitare e viaggiare da fermi: consuete etichette che non rendono appieno il miscuglio che i due hanno creato nelle loro carriere.
la vicenda di Sun Araw è (credo) abbastanza nota: sta per compiere il decennio la sua carriera che si è definita dal principio con una cifra assai personale con il quale il nostro a inseminato la psichedelia di una nuova linfa elettronica ed irriverente, cavalcando l’era hypnagogica e pastrocchiando con le chitarre, i loops, i delay e gli echi lisergici di un’artigianato fai-da-te che ha prodotto alcuni gioielli come On Patrol (Not Not Fun, 2010) e quel capolavoro che è Icon Give Thank (RVNG Intl., 2012) assieme al fido M. Geddes Gengras e ai redivivi The Congos: il reggae più drogato che sia mai dato di udire!
Laraaji (al secolo Edward Larry Gordon) ha invece una carriera da musicista classico sviluppata nei sessanta, ma i suoi studi seriosi si sono infranti sulla sbandata mistica dei ’70, sullo spalancarsi delle coscienze e sui sentieri mistici che conducevano ad Oriente. i prodromi della New Age erano sparsi ovunque, e così fra incidere cassette, meditare e divulgare, fu un sol attimo imbracciare uno zither (si imbraccia uno zither?), elettrificarlo e finire a fare il busker a Washington Square Park (NY): ed è proprio lì che l’aneddotica musicale vuole che Brian Eno si accorse di lui e lo coinvolse in quel progetto che gli ha dato notorietà planetaria (ed anche un poco cosmica): Ambient 3: Day of Radiance (Editions EG, 1980). da allora Laraaji non ha smesso di impersonare con perfetto physique du rôle il musicista mistico e spirituale, perseverando nella sua ricerca certo che il mondo nel suo vano girare su sé stesso sarebbe ancora passato da lì.
non conosco purtroppo i retroscena del loro incontro (peccato) e del come e quando abbiano deciso di collaborare: quel che è certo è che nel giugno di due anni fa si presentarono alla St. Johns Church di Londra per una session della piattaforma broadcast nota con il nome di Boiler Room: la performance vedeva i due (assieme al musicista elettronico Alex Gray) disposti a triangolo di fronte ai loro aggeggi elettronici, tastiere, microfoni e chincaglieria varia.
mi sono guardato il set (almeno) un paio di volte e debbo convenire che sarebbe stato sciocco non dar seguito a questa collaborazione e non giungere a testimoniarla con un’incisione discografica: e per fortuna così è stato. l’interplay fra i tre ha trovato concretezza ed efficacia ed una serie di live successivi in Germania e Svizzera hanno rappresentato il materiale dal quale l’etichetta californiana Superior Viaduct ha tratto questo Professional Sunflow (per la sub-label W.25TH).
quattro registrazioni (due carpite a Lipsia e le restanti a Losanna: da qui i titoli dei brani) in cui il terzetto mescola materiale preparato ad improvvisazioni estemporanee. chitarra e tastiere per Sun Araw, zither, gingilli e vocalità per Laraaji, mentre Alex Gray è alla sintesi computerizzata del tutto. una musica imbambolata ed inebetita da stringhe percussive piuttosto sfilacciate, echi ambient, minimalismi organici ed il preciso intento di procedere verso l’immobilità. bisogna riconoscere ai due (tre) la capacità di timonare la materia che vanno generando, senza lasciarsi sopraffare, rallentando piuttosto che affollare di suoni un flusso piuttosto impalpabile ed onirico: paiono divertirsi ed anche i vocalizzi di Laraaji conducono spesso alla gioia ed a qualche riso sguaiato (la sua Laughter Yoga miete proseliti). se si necessitasse di calma, ipnosi, lentezza ed illogica allegria si può assumere Professional Sunflow senza nessuna tipo di controindicazione.
buon ascolto
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