la radio uabab #102

Radio Sonora
la radio uabab #102
lunedì 21 settembre 2015 ore 17,00
(replica mercoledì 23 settembre ore 17,00)
podcast


Front

El del Moño Rojo
Romperayo
Romperayo (Discrepant, 2015)
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cover
The Night The War End
David Rothenberg & Korhan Erel
Berlin Bülbül (Gruenrekorder/Terra Nova Music, 2015)
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La scomparsa di Majorana
Italia Italia

Flavio Giurato
La Scomparsa di Majorana (Entry, 2015)
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cover
Feu Pale
La nuit
Desert Television (Beacon Sound, 2015)
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Julia Holter - Have You In My Wilderness


Lucette Stranded On The Island

Julia Holter
Have You In My Wilderness (Domino, 2015)
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la radio uabab 2015/2016
quarta stagione

riparte oggi pomeriggio alle 17,00 su Radio Sonora la quarta stagione della trasmissione radiofonica che è diretta emissione di questo e quell’altro blog: la radio uabab. quasi nulla è cambiato se non la rinnovata voglia di trasmettere musica, di raccontarne e di ascoltarne ancora. volentieri ritorno davanti un microfono (la pratica, oltre ad essere divertente, posso assicurare che è terapeutica per curare non so quale disfunzione) e queste pagine aggiorneranno settimanalmente delle scalette e delle musiche trasmesse.
la trasmissione andrà in onda in replica il mercoledì sempre alle 17,00 su Radio Sonora ma la si potrà trovare sul blog – via soundcloud (ascoltabile o scaricabile) – o sulla pagina della radio sul sito della radio.
è tutto: buon ascolto.
stay tuned!

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Cyril Mokaiesh | Giovanni Mirabassi
Naufragés

credo di avere un debito con la chanson francese, una specie di pegno di nutrimento che difficilmente riuscirò a ripagare. le canzoni, se proprio non vogliamo esagerare pensandole depositate nel cuore, di certo, non sarà vietato pensarle nelle tasche: cresciamo con canzoni che modellano il nostro sentire, la maniera di intendere il mondo e persino quella di amare. e ciascuno nasce da qualche parte. e in quella parte del mondo si immerge inerme in un mondo di canzoni: dalla radio ai dischi dei padri, dai juke-box ai film, dai fratelli maggiori alle musiche prese a prestito da amori durati meno di quelle stesse canzoni. noi nella canzone italiana ci siamo fatti grandi e ancora volentieri torniamo a sguazzarci, spesso. ognuno ha i suoi eroi (poco importa qui) ma la scoperta della chanson francese (vista da questo versante delle Alpi) è una rivelazione che può (che dovrebbe) capitare e che in ogni caso dev’essere cercata (o voluta, tuttalpiù desiderata). e una volta varcato il confine ci si rende conto del monumento enorme che i nostri cugini hanno eretto a quell’arte sublime e finissima di raccontare il nostro essere umani attraverso parole e musica. i quattro moschettieri della chanson allora dovrebbero essere mandati a memoria: Jacques Brel, George Brassens, Leo Ferré e Serge Gainsbourg con Boris Vian assente (in)giustificato: gli evangelisti che hanno vergato, composto, cantato e diffuso il verbo e che da molto ci hanno lasciato donandoci in virtù testamentale un cospicuo abecedario con il quale è un po’ meno difficile comprendere il (nostro) mondo e i suoi insulsi capricci.
su quel sussidiario di suoni e parole ho forgiato un mio immaginario prezioso e privato, credo che da lì giungano quelle poche idee politiche che cocciutamente conservo da tempo e confesso pure di aver copiato qualche parola per parlare di quell’amore difficilmente raccontabile. quel debito di riconoscenza allora provo ad onorarlo continuando a porgere l’orecchio verso la Francia e verso i nuovi virgulti di quella chanson che in quello “champagne primordiale” ci sono nati e che, incolpevolmente, provano a confrontarcisi dovendo, come sempre, uccidere o onorare i propri padri.

Cyril Mokaiesh et Giovanni Mirabassi Cyril Mokaiesh è uno di questi giovani (classe 1985 e con una quasi-carriera da tennista alle spalle): una partenza all’insegna del rock con un gruppo che portava il suo cognome e poi la scoperta della chanson, il battesimo nella Senna e l’inizio di una carriera solista: un nome sconosciuto nel nostro paese ma che non è sfuggito alla sensibilità di un pianista, nostro connazionale. Giovanni Mirabassi è un jazzista autodidatta con la passione per i grandi pianisti della storia del jazz, musicista engagé (il suo Avanti! è decisamente notevole), appassionato di chanson e da molti anni trasferitosi a Parigi (la famosa fuga di polpastrelli). i due si sono annusati a distanza, avvicinati con discrezione e infine definitivamente scivolati nella passione condivisa per l’autorialità nobile e fiammeggiante della canzone francese.

folderNaufragés (Un Plan Simple, 2015) è il frutto di questo incontro alla ricerca di piccoli naufragi artistici della chanson francese: autori che non hanno raggiunto l’agognata celebrità, sfortunati autori, figli d’arte, dimenticati o semplicemente lupi solitari inghiottiti dalla vita e dai suoi gorghi. ecco allora 12 canzoni prese a prestito da Mano Solo, Daniel Darc, Pierre Vassiliu e Bernard Dimey: nomi che forse non dicono proprio nulla ai più. magari va meglio con Vladimir Vysotsky, Stephan Reggiani (figlio sfortunato del mio amato Serge), Allain Leprest Jacques Debronckart un poco più celebri ma forse poco noti da questa parte delle Alpi. dodici chansons interpretate per piano e voce a restituire quella statura “classica” dovuta a queste composizioni misconosciute (anche a molti francesi): Giovanni Mirabassi è assai ligio al suo dovere di accompagnatore anche se una vena jazzy pare spuntare fuori come polvere da sotto al tappeto, Cyril Mokaiesh ci mette la passione agonistica, una voce forse non benedetta dalla natura ma volenterosa, che guarda a Brel sapendo che Ferré è forse più raggiungibile.

il primo singolo (ed il primo video necessario) vengono da una bella ballata bluesy di Philippe Léotard. una canzone “modernizzata” e aggiornata con il doveroso gusto e quel french touch intrinseco ed autoctono.

i due si stanno spendendo in parecchi live di rodaggio e presentazione che mi auguro siano propedeutici per un vero e proprio disco di canzoni originali, chissà, magari in futuro. nel frattempo direi che è bene godersi queste, cibo per appassionati forse, quisquilie da fan o da chi è stato toccato dal malìa della chanson francese e non sa guarirne: e anzi prova a rinnovarne i fasti o semplicemente tributarle quel doveroso riconoscimento, quel debito impagabile di cui sopra. bonne écoute

Pubblicato in 2015 | 1 commento

Betty Davis, un film

questo blog e chi lo redige ha sempre nutrito una calda passione per Betty Davis, per la sua musica e per la sua vicenda umana. l’incipit pare solenne ma non sono qui a scrivere per portare brutte notizie o ad annunciare chissà quale ritorno discografico, ma piuttosto a sostenere un progetto che sta cercando di realizzare un film (con il benestare della nostra regina e pure con la sua partecipazione) sulla sua vita e sulla pregnanza che la sua figura ha avuto sulla musica (tutta).

il film si intitolerà NASTY GAL The Many Lives of Funk Queen Betty Davis e per ora necessita di quella spinta dal basso (verrebbe da dire inguinale) che è propria dei crowdfunding popolari, ossia un contributo dei singoli per la realizzazione del progetto.

il mio piccolo obolo è già stato pagato e a questo aggiunto la (piccola) cassa di risonanza che può fare questo blog nel diffondere la notizia e nello spronare i miei venticinque lettori a fare il proprio dovere.
let’s F.U.N.K.

Pubblicato in 2015, Kino | Lascia un commento

Soundwalk Collective
Sons Of The Wind

ritorno su un disco uscito un anno addietro (era il settembre 2014) ma che per sua natura non ha né l’urgenza dell’attualità e neppure le scadenze dei prodotti commerciali e, di conseguenza, del tempo si prende innocua burla. una burla però serissima, raccontata con la solennità di un’antica fiaba e trascritta con le magie dell’odierna tecnologia a cercare di rincorrere lo scorrere di un fiume, il peregrinare indomito di un popolo ed il flusso indefinito del tempo.
ma procediamo con ordine. Soundwalk Collective è il nome di un collettivo che risiede laddove New York e Berlino confinano e che è formato (ad assetto variabile) dal francese Stephan Crasneanscki, dall’americo-iraniano Kamran Sadeghi e dal nostro compaesano Simone Merli. mescolano sound art ed una irrefrenabile spinta dromomaniaca che li porta a girare il mondo con l’antico piglio etnomusicologico tenendoli al vento e ben lontani dalla luce malsana del laptop e dalle lande di soli pomelli e pulsantiere di cui son fatti mixer e marchingegni elettronici. registrazioni sul campo, ambientazioni reali e rincorse di sogni (che siano veri, epici o presunti) fanno accumulare una materia sonora che i tre rielaborano mescolandola, sovrapponendola, installandola o semplicemente godendone allo stato brado.

The-Soundwalk-collective-in-Hyeres

fra i vari progetti realizzati dal collettivo ve ne sono alcuni che sobillano la mia immediata curiosità ed alimentano la stima nei loro confronti: Ulysses Syndrome è il viaggio (reale ed) acustico nel Mediterraneo a ripercorrere e carpire la malìa sonora che accompagnò l’eroe nel suo ritorno ad Itaca, Killer Road (assieme a Patty Smith) una cogitazione poetica sulla scomparsa di Nico avvenuta ad Ibiza per un banale incidente ciclistico, Exile è la testimonianza (drammaticamente attuale) delle storie che attraversano i 14 chilometri di mare che separano Marocco e Spagna, mentre La Brûlure è il tentativo efficace ed evocativo di raccontare la canicola bruciante delle estati mediterranee.

Schermata 2015-08-20 alle 11.12.18

il loro ultimo lavoro invece ha visto nel Danubio la traccia da seguire, il suo percorso tortuoso nell’Europa centro-orientale ed il racconto del popolo che, al di là dei confini nazionali, abita le sue sponde da secoli: il popolo dei figli del vento, il popolo dei gitani.

Sons of the WindSons Of The Wind (Asphalt Tango, 2014 PDF) è un viaggio sonoro attraverso Ucraina, Moldavia, Romania, Bulgaria, Macedonia, Serbia, Austria, Germania ad incontrare il popolo rom nei quartieri delle città o nei campi addossati alle sponde del grande fiume blu. un viaggio acustico ed un diario aurale a registrare i suoni del fiume e le voci ed i canti di un popolo che con il fiume condivide un percorso lungo e tortuoso attraverso le pieghe dei secoli a confondere origini e provenienze e a combattere uno dei più antichi pregiudizi radicati in quest’Europa incapace di farsi adulta e a comprendere la natura dei figli del vento. Soundwalk Collective ha stratificato diversi piani d’ascolto assommandoli e mescolandoli in un flusso indistinto che davvero assomiglia ad un mistero fluviale e ad un storia di esodi e migrazioni che ha cancellato le proprie tracce: registrazioni ambientali si innestano nelle voci del campo, nel brusio della festa, nel clangore del quotidiano, qualcuno canta, altri suonano, chi fuma, chi ridacchia e chi si sposta: non è ardito seguire lo scorrere di questa narrazione che come una pellicola da godere ad occhi chiusi trasporta le voci ed i suoni di quest’entità (nella più nobile delle accezioni) che si è innestata come una muffa nobile nella nostra corsa insensata verso un dissennato futuro.
mancano gli odori, il freddo umido del fiume ed il vento fra le fronde ma qualcuno a provato ad integrare per le nostre pupille alcune immagini a sottotitolare i suoni del disco.

il viaggio ha condotto il collettivo in alcune enclave storiche della storia dei rom europei, a Skopje (Macedonia) e più precisamente a Shutka dove un’intero quartiere è abitato da gitani stanziali e dove vive la regina unanimamente riconosciuta Esma Redžepova, o a Clejani (quante volte ne ho già scritto?) in Romania a registrare i Taraf de Haïdouks, e poi in Serbia ad incontrare Boban Marković. e poi i tanti nomi ed i tanti eroi della musica gitana sparsi attorno al fiume come sementi sul campo del mondo.
un souvenir sonoro da un non-luogo, da una storia imprecisa e contrastata, da uno scorrere imprendibile e indefinito: un suono ineffabile ed eppure assai preciso e carnale a ricordarci i volti e le esistenze di chi abita un pregiudizio malsano ed antico, a rammentarci dell’immagine che potremmo vedere riflessa sullo specchio d’acqua se fossimo capaci di ritrovare la faccia che abbiamo abnegato e l’umano in cui dovremmo riconoscerci.
buon ascolto e buon viaggio

Pubblicato in 2014, 2015 | 1 commento

Dr. Yen Lo
Days With Dr. Yen Lo

cosa c’entra l’hip hop con gli scacchi? e con un mestiere da pompiere? cosa ha a che fare la sopraggiunta maturità della mezz’età con le urgenze del beat, dei sample o del flow? tutte domande che forse non hanno risposte certe ma intorno alle quali si attorciglieranno le righe qui di seguito. righe sparse e forse imprecise in cui non tenterò di esibire una conoscenza dignitosa della scena hip hop e delle sue innumerevoli manifestazioni: l’anagrafe però è dalla mia parte, ho assistito alla diffusione planetaria del genere e sono riuscito ad amare alcune manifestazioni straordinarie nel bel mentre si affacciavano al mondo (De La Soul e Digable Planets su tutti). da quelle fortunose fascinazioni mi resta l’abitudine recidiva di restare attento, pur restando in disparte, di spiare dalla serratura e ascoltare, con la mano a coppa appoggiata al muro, il brusìo ritmoso che emettono le generazioni nate dopo di me e cresciute con l’hip hop nel sangue.

KA

capita così di imbattersi nel nome di KA di cui avevo apprezzato parecchio il suo The Night’s Gambit (Iron Works, 2013) con quella copertina alla Ellery Queen di cui non potevo non amare l’associazione con il gambetto dell’amato gioco degli scacchi. KA che il secolo vuole Kaseem Ryan, fiero figlio di Brownsville (Brooklyn, NY) è un rapper anomalo, adulto (classe 1972) e soprattutto lontano dai riflettori più pacchiani della scena. ha un mestiere di pompiere (davvero) e la sua passione per la musica è nutrita e curata nello spazio libero e amatoriale di una vita che ha visto succedere parecchie cose (non tutte belle) e fuoriuscire da molti vicoli bui (un’intervista eloquente).
e così con quel nome annotato sul taccuino mentale rischiavo quasi di lasciarmi sfuggire il nuovo progetto di KA per il vezzo e la maniera di ribattezzare progetti, coniare acronimi e partorire sigle che è implicito nel mondo hip hop: per fortuna Wire e Pitchfork (che qualcuna l’azzecca) mi hanno tirato per la giacca per avvertirmi che dietro al progetto Dr. Yen Lo si nascondeva in effetti il rapper newyorkese.

front

Days With Dr. Yen Lo (Pavlov Institute, 2015) vede KA assieme al producer Preservation (qualcuno forse ricorda The REcstatic con Mos Def) riprendere l’identità di un fantomatico illusionista strizzacervelli cinese e pavloviano immaginato da Richard Condon nel suo romanzo The Manchurian Candidate (1959) poi portato al cinema con lo stesso titolo da John Frankenheimer nel 1962. The Manchurian Candidate (Va’ e uccidi in italiese) raccontava di un noir psicologico imbevuto di guerra fredda in cui il doppio, l’ipnosi, il nemico e la paura inzuppavano una trama scura in cui un Frank Sinatra, che l’eternità non ricorderà certo per le sue qualità drammaturgiche, apre la sua mente all’onirico (sic!) e svela le profondità recondite della psiche umana.

dal film Ka e Preservation hanno mutuato l’atmosfera notturna, il bianco e nero e parecchi inserti audio che punteggiano l’intero lavoro: la figura del Dr. Yen Lo è il grimaldello per entrare nella propria coscienza e scavare alla ricerca dei passi falsi, delle ferite, delle confessioni e degli atti mancati come in una seduta ipnotica in cui affiorano cicatrici irrisolte del proprio passato.

i titoli dei brani del disco portano i numeri di giornate non consequenziali in cui le annotazioni di un diario personale rappresentano i testi declamati in modo indolente e fiero; un flow maturo che non cerca la piroetta circense ma piuttosto scandisce e doppia concetti indispensabili per questa rivelazione personale che va ben oltre la mimesi con l’illusionista cinese.

il suono è oscuro e pulsante sebbene privo di un beat esplicito: il flusso si nutre di una percussività sotterranea innervata di archi, crepitìi di vinile e tanta soulfullness setosa e sensuale. Day 13 ha un coretto e voci femminili sulla coda del brano che rendono un tributo inequivocabile alla montagna sacra della musica nera.

KA ci tiene a sottolineare in parecchie interviste che la sua età adulta gli permette di guardare al mondo dell’hip hop da una posizione di maturità, rispetto e consapevolezza: in lui non vi è l’urgenza di arrivare, di bruciare e di distruggere ma piuttosto quella di rendere denso il sentimento dell’esistenza e trasformarlo in un suono pulsante da dimenticare in loop per tutta la notte.
buon ascolto

Pubblicato in 2015 | 1 commento

David Rothenberg & Korhan Erel
Berlin Bülbül

David Rothenberg non salverà il mondo, forse, ma lo sta rendendo per certo un posto migliore! un musicista, un compositore, un autore, un filosofo naturalista, un docente ed un didatta: David Rothenberg è tutte queste cose assieme e molto di più, è un insaziabile curioso convinto che una delle più vaste (e lampanti) zone d’ombra dello scibile umano riguardi il dialogo con le specie animali che, su questo spigolo di universo, sono nostre “coinquiline” a partire dalla notte più oscura dei tempi. un dialogo non comportamentale e neppure etologico, tanto meno linguistico o cognitivo, piuttosto uno spazio sconosciuto ed ignoto dove le rispettive attitudini sonore tessano un canto antico, immanente e primordiale. ma cos’è questa possibilità recondita di duettare con le bestiole se non il sollucchero di ogni musicista (e ascoltatore) curioso?

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David Rothenberg è alquanto cocciuto e niente affatto novizio a questo genere d’esperienze: Why Birds Sing (2005, da associare ad un prezioso libro), Whale Music (2008, imperdibile e anch’esso affiancato da un compendio saggistico), Bug Music (2013, con immancabile testo) e Cicada Dream Band (2013, assieme a Pauline Oliveros e Timothy Hill) lo hanno visto interagire con svariati pennuti, megattere degli abissi, insetti e cicaleggi metropolitani. un’interazione che si è nutrita di ricerca, ascolti, appostamenti, field recordings, marchingegni vari e soprattutto di note fuoriuscite dai clarinetti di Rothenberg (che dello strumento è apprezzato virtuoso).
e questa stessa benedetta testardaggine ad averlo riportato a dialogare con gli usignoli delle vaste aree verdi dell’area metropolitana di Berlino: complice e sodale l’amico turco Korhan Erel che appassionato ascoltare e rielaboratore sintetico di questi canti ha condotto David Rothenberg nel bel mezzo della notte dei giardini berlinesi in quel mese di maggio (2014) in cui gli usignoli si prendono l’intero spazio che va dal tramonto all’alba per corteggiarsi, lusingarsi, e significarsi attraverso il più melodioso ed il più definibile (leggi intonabile) dei canti ornitologici.

coverBerlin Bülbül (Gruenrekorder/Terra Nova Music, 2015) racconta di questa ennesima esperienza di David Rothenberg (dove Bülbül è il nome dell’usignolo nella lingua turca).
Treptower Park e Hasenheide Park sono i luoghi in cui fra l’aprile e il maggio 2014 si sono svolte queste registrazioni estemporanee in cui i due musicisti appostati sotto le fronde notturne hanno “dialogato” con gli usignoli compiacenti. David Rothenberg ai clarinetti (in Si bemolle e basso) e Korhan Erel al Samplr per iPad.
uno scambio equo, mutuale e reciproco, un call and response dove non è ancora chiaro chi desse la voce e chi la risposta: estemporaneità notturna, ispirazione bucolica. non tutto il disco ha questa modalità da registrazioni “sul ramo”: quattro le takes carpite dal vivo nel parco e le restanti otto tracce sono elaborazioni in studio (in duo) in cui l’eco del canto ornitologico permea sia la parte elettronica di Erel che il fraseggio di Rothenberg.
ma l’attacco del primo lungo brano (The Night The War Ends) registrato il 9 maggio 2014 verso mezzanotte al Treptower Park vale la meraviglia di questa gaudente follia sonora (ed umano-ornitologica assieme): un field recording di usignoli accoglie il clarinetto nasale e sensuale di Rothenberg che si insinua con note felpate e bluesy, con un pattern che presto si fonde con le variazioni tonali degli uccelli e da lì in poi è puro deliquio e rapimento.

va detto che i brani in studio sono straordinarie cogitazioni di un duo, materiale organico delizioso che ha valore a prescindere dall’epifania più eclatante del disco rappresentata dalle registrazioni live, ma che sono queste ultime a stupire e a significare il focus di questo lavoro. Rothenberg pensa alla possibilità di una musica (e di un dialogo) sconosciuta ad entrambe le specie, lo fa a modo suo con fare un poco folle, fra il serio ed il faceto, come un novello Francesco che predica ai volatili (impartendo e ricevendo reciproche cinguettanti meraviglie) o come Totò quando provava a convertire Uccellacci e uccellini. l’unico rammarico è poter ascoltare soltanto la versione “umana” di questo dialogo senza avere responsi o pareri dal versante “ornitologico” del dibattito: cosa si dice fra le fronde? che ne pensano delle nostre capacità musicali? come ci osservano?
in ogni caso, tralasciando facezie e giocose divagazioni, questo disco è una delizia da godersi fra la verzura, distensivo, rinfrescante e vero e proprio sollucchero per naturalisti curiosi e/o appassionati di (grande) musica.
buon ascolto

Pubblicato in 2015 | 3 commenti

Norberto Lobo + João Lobo
Oba Loba

è difficile provare a raccontare un disco che sfugge, defilato, non urgente e neppure afflitto dall’ansia di rincorrere chissà quale scena o pressante contemporaneità: un disco pigro, quasi svogliato, sonnolento e letargico, un disco che si potrebbe definire non necessario ed inutile se non fosse che questi due aggettivi, nel mio vocabolario, hanno la nobiltà della bellezza e la benedizione di qualsivoglia curiosità.
difficile parlarne: si potrebbe partire da un’indirizzo di Lisbona, 21 A Rua do Alecrim, dove in un sottoscala sotto al livello stradale si annida un negozio di dischi che per chi è nato nel secolo scorso (e si ricorda i negozi di dischi) è un piccolo mausoleo di memorie e gioie aggrovigliate al ricordo di cercare dischi, annusarli, guardarli, ascoltarli, riconoscersi e significarsi.

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il negozio si chiama Trem Azul, porta il sottotitolo di jazz store, ed è l’evidente traduzione portoghese di Blue Train (se non si fosse ancora capito in che dolci acque si sta navigando): è un luogo sacro (sempre nel mio vocabolario), una specie di aleph di moquette, immaginazione, silenzio e musica meravigliosa e randagia. è insomma un luogo che consiglio di visitare se ci si trovasse da quelle parti (e che non racconterò come fanno i vacanzieri con le diapositive). ma oltre tutto ciò è anche l’indirizzo fiscale dove ha sede sociale l’etichetta Clean Feed che non credo abbia bisogno di grandi presentazioni: ne ha forse bisogno di qualcuna in più la (sotto)etichetta concepita sotto l’ombrello protettivo della Clean Feed che porta il nome di Shhpuma Records nata con l’intento di testimoniare la fervente scena nazionale portoghese (beyond, below and above the jazz! come dicono loro). l’indirizzo postale è sempre il medesimo, ça va sans dire.

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ad oggi l’etichetta conta una dozzina abbondante di titoli in catalogo fra i quali splende il nuovo disco dei fratelli Norberto Lobo e João Lobo: chitarrista organico e sperimentale il primo, batterista il secondo. due nomi già annotati sui taccuini più attenti; nel 2013 un disco in famiglia (nello stretto giro della fratellanza) dal titolo Mogul de Jade (Mbari) dove sperimentalismi e lirismi accerchiavano una visione trasversale della tradizione patrìa. il nuovo disco a nome del duo vede invece allargarsi la cerchia degli amici e dei sodali che si sono ritrovati nello studio belga (Studio Grez) del pianista Giovanni Di Domenico: assieme a loro Ananta Roosens (violino, tromba, voce), Jordi Grognard (clarinetti e voci), Lynn Cassiers (voce, elettronica e woodblock). un sestetto europeo ed eterogeneo che ha visto la collaborazione in studio anche di Niels Van Heertum (euphonium), Daniele Martini (sax tenore) e di Gregoire Tirtiaux (batterie, arpa e voci).
un’ensemble cameristico sgangherato e continentale che ha dato voce alle composizioni polifoniche dei fratelli Lobo in libera uscita randagia e migrante fuori dal Portogallo e dentro quest’Europa che fatica a riconoscersi ed annusarsi nei palazzi di Bruxelles ma che ha già senso di esistere nelle sensibilità di chi vive questa fratellanza (più ampia) fra incontri, scambi, riconoscimenti e condivisioni.

Oba Loba

Oba Loba (Shhpuma/Silent Water, 2015) è il titolo del loro lavoro che a quanto mi risulta non ha una vera e propria traduzione nell’idioma portoghese. Oba Loba è una specie di palindromo imperfetto allitterante (è bene non cercare la definizione in rete perché credo di essermela inventata), insomma rovesciando il tutto si può leggere Abo Labo che un poco rassomiglia a quel titolo immaginifico che turbò le fantasie dei alcuni fanciulli (fra cui lo scrivente) rapiti da una sigla televisiva evocativa, o per assonanza ricorda il nomignolo del blog cugino di questo che ha avuto un battesimo bizzarro e casuale. ma sono divagazioni personali, trascurabili, che servono a prendere tempo e a girare alla larga da un centro gravitazionale del disco che è al tempo stesso sfuggente e vago. Oba Loba è musica da camera pigra ed assonnata, musica da ensemble strumentale che a volte si mette a canticchiare con fare autistico (Aaaaaaa), musica bislacca screziata di elettronica e di coralità ebbra. un incedere indolente che rifugge gli sperimentalismi eccessivi per inseguire una cantabilità minima, essenziale, fischiettabile: qualcuno potrebbe riconoscervi del prog infantile, altri vederci una perfetta colonna sonora per un film in cui non succede nulla, c’è chi si aspetta che compaia da un momento all’altro la voce di Robert Wyatt (non succederà purtroppo, ma quanto sarebbe stato bello) e chi non si da pace nel cercare di collocare questo disco nello scomparto giusto della propria discoteca ordinatissima.

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come si diceva più sopra musica non necessaria, svagata, onanistica eppure incantevole nel descrivere quel lieto niente in cui si è indaffarati ad oziare e non succede proprio nulla. sonnambulismo, suite accennate ed abortite, ritmiche zoppe: c’è da perdersi ed uscirne sconfitti a provare ad abbracciare l’orizzonte ultimo di questo disco. ed in fondo non pare neppure necessario: paiono svagati e svogliati pure i due fratelli nel provare a raccontare.

e se a Norberto Lobo si prova a chiedere quali siano le sue influenze ecco che (neppure troppo) inaspettatamente spunta fuori il nome di Jacques Tati: e la frittata, almeno dalle mie parti, è fatta! avevo detto che era difficile raccontare questo disco ma in realtà credo di essere io a non essere in grado di farlo: è che mi sono lasciato inghiottire in uno di quei gorghi di senso ed illogica allegria che riempiono i miei giorni più fortunati. ho messo assieme un’indimenticabile passeggiata solitaria e mattutina per le discese di Lisbona, un negozio di dischi inenarrabile, un palindromo imperfetto allitterante (?!?), due fratelli svogliati e defilati e la sola evocazione di Jacques Tati che basta a rallegrare ogni istante: e in più questa musica deliziosa e sublime che vi invito ad ascoltare gettando via tutte le mie parole inutili così come si separa una buccia dalla banana, gettandola, ed evitando di scivolarci sopra. il disco è qui, davvero delizioso.
buon ascolto

Pubblicato in 2015 | 6 commenti

la radio uabab #101

Radio Sonora
la radio uabab #101
lunedì 1 giugno 2015 ore 17,00
(replica mercoledì 3 giugno ore 17,00)
podcast


VA-Remembering-Mountains-Unheard-Songs-by-Karen-Dalton-300x300My Love, My Love
Julia Holter
Remembering Mountains: Unheard Songs by Karen Dalton
(Tompkins Square Label, 2015)
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( ( ( ↓ ) ) )

Stefano-Pilia-296x300
What Are They Doing In Heaven Today
Stefano Pilia
Blind Sun New Century Christology (Sound Of Cobra, 2015)
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( ( ( ↓ ) ) )

cover11-300x296
In for a Penny, In for a Pound (Opening)

Henry Threadgill Zooid
In for a Penny, in for a Pound (PI Recordings, 2015)
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Save-Your-Breath-300x300
Union Forever
Kris Davis Infrasound
Save Your Breath (Clean Feed, 2015)
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( ( ( ↓ ) ) )

cooper cover


Summer Without Waves

Mike Cooper
Fratello Mare (Room40, 2015)
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ciao Costantino

caro Costantino,
crepare di maggio, ci vuole tanto troppo coraggio! se questa vita bagascia ci desse il tempo di avvertire chi resta, sono certo che mi avresti telefonato da uno dei tuoi numeri improbabili per sfoderare l’ennesima citazione seguita dalla tua risata inconfondibile.
ma la vita è appunto bagascia ed io sono qui che mi appallottolo un dolore alla bocca dello stomaco, stordito, smarrito, confuso e assai più solo.
cosa vuoi che scriva ora? che senso ha farlo? a chi?
posso fingere di farlo da redattore di queste pagine che ti hanno visto irrompere con quell’improbabilità guascona che non ti si toglieva di dosso, quell’urgenza di fare, di dire, di urlare e di riderci sopra: quel metterci sempre la faccia a costo di schiaffi o carezze, quella furia di vivere, godere e bruciare i giorni nella vampa dell’esserci.
su questo blog hai lasciato parole, deliri, bugie e urticanti verità: ma era fuori di qui, dove non si recita e non si inganna, che hai speso tutto. tutto di fretta, tutto sempre necessario, tutto subito, tutto possibile, tutto macchémenefotteammé, tutto quello che io non so e non posso dire.
mi hai rovesciato addosso la tua passione fraterna, invadente, incondizionata, mi hai tenuto al telefono ore ad ascoltare monologhi deliranti che già rimpiango: quei fortunati giorni passati assieme avevano il sapore dirompente e necessario di una rivoluzione da incendiare all’istante.
te ne sei andato con la stessa urgenza con la quale vivevi: sempre prima degli altri, di testa tua, a muso duro, da capoccione. scrivo perché sono certo avresti preferito così, ma vorrei tacere perché non c’è una sola parola che valga la pena di esser detta.
ma di questo Costantino fregatene, come sempre, e appena ritorni, ti prego, telefonami.

Pubblicato in Costantino Spineti | 2 commenti