ci sono esploratori curiosi e instancabili che percorrono sentieri sui quali sogno
anch’io di avventurarmi; avvistatori, avanguardisti, lungimiranti o semplicemente
curiosi di meraviglie musicali di questo mondo. Marco Boccitto (sulle onde della RadioTre nazionale) e Corrado Antonini (dalla sua trasmissione sulla RadioDue svizzera) sono due sound trapper di cui mi fido
sordamente: furono loro, l’estate scorsa, a segnalare contemporaneamente l’avvistamento
di un felino mezzosangue che si muoveva fra le versi vallate svizzere
e gli affollati mercati di Accra, con la sua fiera criniera e l’andatura elegante di
una regina.
Joy Frempong è un frutto di quella mescolanza dei figli del mondo che fa sì che
un padre ghanese ed una madre svizzera possano far nascere una fanciulla proprio nel
bel mezzo di quel continente che si ostina a chiudere le porte al futuro che giunge
a bussare. credo sia stato endemico per lei crescere qui e pensare all’Africa,
ascoltare musica occidentale e riscoprire le proprie antiche radici sonore: pensare
insomma contemporaneamente in due idiomi che in lei si sono fusi ed hanno generato humus per nuovi splendidi virgulti fioriti.
del primo First Box Then Walk (Creaked Records, 2010) pochi si accorsero, ma
una carriera stava nascendo e i primi vagiti di hiphop infarciti di elettronica e strumenti giocattolo stavano seminando un terreno tutto da esplorare. poi la gavetta live a ritmo di festival in diversi luoghi girovagando per mezzo mondo a rodare le capacità espressive, la penna e tutto un immaginario estetico fatto di modernità ed africanità compenetrate ed indistinguibili. questo fino al 2013 in cui giunge il più maturo Kokokynaka (sempre Creaked Records) che è anche l’aleph che avvistano i due lungimiranti nominati più sopra. un miscuglio aggrovigliato di elettronica casalinga, rumorismi urbani, cantilene, invocazioni al
proprio bulbo capillifero, reinterpretazioni delle origini del mondo e tanta Africa 2.0
filtrata dalle parole e dai suoni di questa sovrana popolare dal sangue misto.
e allora vuoi la piccola etichetta, vuoi le difficoltà di distribuzione e vuoi
certo l’effettiva qualità di questo prodotto ecco dunque giungere all’orizzonte
l’immediato interessamento della più importante etichetta belga (leggi Crammed Discs),
di certo la più abile a scrutare i suoni e le commistioni che giungono da oltre
mediterraneo. e così che questo Kokokynaka viene inghiottito dal pesce più grosso per
risputarlo rielaborato (ma neppure troppo) ed integrato da alcune versioni live ed
un remix oltre ad una introduzione che fa di questo No Problem Saloon (Crammed Discs, 2014) una specie di non luogo (di nessuna problematicità), un Magic Bus oppure un Magical Mistery Tour in grado di farsi concept di un viaggio
retrofuturible di un Africa in divenire.
I would like to invite you to the No Problem Saloon It is just a place full of no problems Put on your dancing shoes in the No Problem Saloon
prodotto e suonato assieme al sodale Lleluja-Ha, No Problem Saloon ha l’appeal del pop sintetico di questi anni del nuovo secolo.
anche l’Africa è resa silicea, raccontata per sintesi o per difetto. è il pop che
sognerei di ascoltare se fossi adolescente nell’anno 2014. ma io ho preso da tempo
le distanze dall’adolescenza e dubito pure che le classifiche recepiranno questa
elegante provocazione culturale, ma quello che è certo è che siamo di fronte ad un
fiore raro e prezioso nel giardino internazionale della musica. il canto di OY si
è fatto ieratico, austero, da vera affabulatrice, senza perdere l’innocenza del
gioco infantile e uno spensierato divertimento che squilla e sprizza ad ogni
vocalizzo.
elettronica + appiccicose linee melodiche + un beat che è già danzereccio +
il phisique du role che non guasta mai: ecco l’equazione da risolvere per chi ha
voglia di seguire i sentieri dei due sound trapper (lo ripeto perché mi suona bene)
ai quali, come fanalino di coda, aggiungo pure il mio gradimento.
naturalente c’è già un video ufficiale anche se io
preferisco mostrare questo (e suggerire quest’altro risalente ai suoi debutti)
che mostra in magnifica nudità le semplice ed efficaci potenzialità del suo live
e della sua arte.
un tour è già partito girando mezza europa e mezzo mondo ma questa paese da
cui scrivo non sembra appartenere geograficamente (e musicalmente) a nessuno di
questi due continenti. a queen is born (da tanto tempo volevo scriverlo!)
buon ascolto
Ndakhumudwa (You Betrayed Me) Malawi Mouse Boys Dirt Is Good (Indipendent Records, 2014) more details ( ( ( ↓ ) ) )
Calma Pèlerin Ensemble Meridional Des Cayes Haiti Direct: Big Band Mini Jazz & Twoubadou Sounds 1960-1978 (Strut Records, 2014) more details ( ( ( ↓ ) ) )
credo di dover riconoscenza a questi ragazzi del Malawi, credo di dovergli questo post e credo pure di essere lieto di scriverlo (in realtà ne sono certo). era il luglio del 2012 e la sorpresa di averli incontrati mi spinse a scrivere di loro (qui), a parlare della buffa origine gastronomica del loro nome e della musica gioiosa e contagiosa che cantavano e suonavano. quel post incontrò la curiosità di frequentatori (vecchi e nuovi) di questo luogo e con quella curiosità altre parole, nuovi suoni e altre musiche ancora.
i Malawi Mouse Boys sono insomma dei portatori sanissimi di semplice bellezza e dopo l’uscita di quel primo He Is #1 (Indipendent Records, 2012) una buona parte di coloro che tengono un orecchio teso ai suoni degli anfratti del mondo si accorse di loro. giungere al Womad 2013 (qui un video) insomma fu una piccola e meritata consacrazione.
così come giungere al secondo disco è cosa buona e giusta: rimanere uguali a se stessi nella semplicità di quell’esordio ancora meglio. Dirt Is Good (Indipendent Records, 2014) non cambia di molto le carte in tavola: registrazione spartana sul campo, medesimo produttore (Ian Brennan) e medesima strumentazione di fortuna. chitarre autocostruite, percussioni rudimentali (una lattina o due corone da bici) buone all’uopo e la vocalità ridente ad intonare lodi e preghiere verso l’alto. il tutto nel medesimo villaggio fra gli stessi bambini nel frattempo un poco cresciuti e poi galline, siccità e quella “sporcizia” lodata ed invocata nel titolo del disco (qualcuno diceva dai diamanti non nasce niente…).
spero possa essere una piacevole sorpresa per chi li scopre oggi e un gradito ritorno per chi gli ha voluto bene da subito: io sono fra loro.
buon ascolto: dirt is good!
Voa, Ilza David Helbock’s Random/Control Think of Two (Traumton Berlin, 2014) more details ( ( ( ↓ ) ) )
Sukiyazukuri No Tatazumai (The Peaceful Atmosphere of a Wood Sukiya-style Temple) Akira Sakata & Giovanni Di Domenico Iruman (Mbari Musica, 2014) more details ( ( ( ↓ ) ) )
Hope Step the Lava Flow Alexander Hawkins
Song Singular (Babel Label, 2014) more details ( ( ( ↓ ) ) )
ospite Federico Savini,collaboratore di Blow Up, oltre che conterraneo, amico e fraternamente ammalato di musica. qualche chiacchiera, qualche bicchiere e qualche disco a proposito del suo articolo apparso sul numero #187 di dicembre 2013: Japan Post Ongaku seconda parte
Birds Ryoko Ono Undine (Doubt Music, 2012) more details
Esoteric Ryoko Ono Undine (Doubt Music, 2012) more details
Dreams of an Arc Lamp Blacksheep Blacksheep (Doubtmusic, 2008) more details
通過
Kukan Gendai II (Headz/Unknownmix, 2012) more details
Hexman Goat New Games (Headz/Unknownmix, 2013) more details
仮面舞踏会 Core Of Bells & Taku Sugimoto Gesupiria2 Lost Banchos (Chaos, 2010) more details
prima che la stagione si guasti irrimediabilmente, prima che giunga tutta quella luce fin oltre l’ora di cena, tutti quei fiori, quei colori, quegli odori. prima che la verzura si metta a rigoglire e gli ardori a ribollire e la calura a soffocare; prima che tutto questo avvenga è bello perseverare ancora un poco in questo tempo umido, nebbioso e scuro.
per farlo è bene aggiungere un ceppo odoroso al caminetto, del tabacco finnico alla pipa e del cognac al bicchiere: e poi sedersi comodi ad ascoltare un disco. il disco mi permetto di suggerirlo io, per tutti gli altri accessori lascio completa libertà d’azione.
Alexander Hawkins è un pianista inglese (giovane) che si muove nell’ambito dell’improvvisazione (senza aggiungere dettagli di genere): il suo nome non è certo sfuggito ai più attenti addetti ai lavori (battiti, per rimanere in ambiti nazionale, lo ha ospitato ed intervistato), ma si narra che sia la prova solista e solitaria a segnare un necessario passaggio nella carriera di qualsivoglia pianista. e dunque eccola qui. Song Singular (Babel Label, 2014) è il primo (ce ne auguriamo altri) disco solista di Alexander Hawkins ed è semplicemente straordinario: dieci quadri (dieci stanze? affreschi?) solitari, imprendibili, imprevedibili e per certi versi inauditi. improvvisazione e composizione mescolati a tal punto da non dover più porsi la questione, una perizia tecnica esorbitante e una cultura musicale che trasuda da ogni martelletto.
Musica con la maiuscola senza scivolare nelle etichette e nelle definizioni: sarebbe arduo confinarla nel jazz (che però scalcia da ogni trillo) ed un peccato confinarla nella classica contemporanea (eppure mi sembrava di riconoscerla…). si spazia in tre secoli di musica: gli ultimi anni del’800, tutto il secolo breve e il debutto di questo millennio. qualcuno ha parlato di state-of-the-art contemporary piano jazz, io potrei aggiungere timidamente the shape of jazz (piano) to come: comunque lo si ascolti questo disco è davvero in grado di sorprendere e regalare splendore.
critici ben più seri di me hanno già snocciolato i nomi di Sun Ra, Cecil Taylor e Art Tatum, altri quelli di Ellington, di Abdullah Ibrahim o di Monk: ma quando i nomi diventano troppi ed altisonanti sento odore di unicità difficilmente imprigionabile. ci sono tutti e nessuno di loro e da ora credo che la musica di Hawkins possa prendere il nome paterno.
ascolto, riascolto e mi riprometto di udirne ancora: il caminetto, il cognac e la pipa sono solo fantasticati, questa musica no. una delizia che richiede meditazione, attenzione, passione e parecchia concentrazione, peculiarità invernali che la maledetta primavera imminente soffierà via con quel fare civettuolo.
ripeto: una meraviglia
buon ascolto
ospite Federico Savini,collaboratore di Blow Up, oltre che conterraneo, amico e fraternamente ammalato di musica. qualche chiacchiera, qualche bicchiere e qualche disco a proposito del suo articolo apparso sul numero #187 di dicembre 2013: Japan Post Ongaku prima parte