la radio uabab #32

Radio Sonora
la radio uabab #32
venerdì 4 ottobre 2013 ore 21,00
(replica sabato 5 ottobre ore 21,00)
p o d c a s t


Anadolu Oyun Havasi
Cüneyt Sepetçi & Orchestra Dolapdere
Bahriye Çiftetellisi (L.M. Dupli-cation, 2013)
more details
( ( ( ) ) )

Kada Zvona Zvone
Šaban Bajramovic
Stand Up, People: Gypsy Pop Songs from Tito′s Yugoslavia, 1964-1980 (Vlax Records/Asphalt Tango, 2013)
more details
( ( ( ) ) )


Namoro de Guitarras
Yamandu Costa
Continente (Biscoito Fino, 2013)
more details
( ( ( ) ) )


Encarnacoes em Kodya
Tiganá Santana
The Invention of Colour (Ajabu!, 2013)
more details
( ( ( ) ) )


Algo Necessário
Ekundayo
Ekundayo(Ropeadope, 2011)
more details
( ( ( ) ) )


(il suono carsico)
Federico Durand
El Idioma De Las Luciérnagas (Desire Path Recordings, 2013) more details
( ( ( ) ) )

Pubblicato in la radio uabab, la radio uabab 2013/2014 | 1 commento

la radio uabab 2013-2014
oppure La seconda stagione che dir si voglia

riprende la radio uabab. questa è la notizia, per quanto di piccola cosa si tratti, la novella andava data. e visto che non posso che essere io ad occuparmi di diffonderla, eccola dunque a disposizione di chi avrà la cortese attenzione di mettersi in ascolto e di seguirla.
riprende con quella che si potrebbe ben dire la seconda stagione: ossia da domani 4 ottobre con appuntamento settimanale fino al limitare dell’estate prossima. la presentai un anno addietro e pressoché medesime sono le parole che userei oggi. immutata anche la formula, l’emittente e l’appuntamento settimanale (dallo streming della radio ogni venerdì sera alle 21 ed in replica il sabato successivo sempre alle 21). ci sarà naturalmente il podcast successivamente disponibile e tutti i dettagli dei brani trasmessi sulle pagine di questo blog.
le prime 31 puntate sono ancora disponibili all’ascolto (le trovate qui come quelle che seguiranno). la numero 32 sarà quella di domani sera e via di seguito con quelle a seguire.
questa la notizia allora: riprende la radio uabab!
mi sono limitato alla stringata notizia tacendo la voglia, l’interesse e il divertimento (tutti e tre miei) che mi muovono a realizzarla: a loro aggiungo l’augurio di un buon ascolto a chi avrà voglia di farlo.
stay tuned!

Pubblicato in 2013, 2014, la radio uabab, Radio | 3 commenti

Ekundayo
Ekundayo

due anni (equivalenti a 24 mesi o a 104 settimane), in quest’era precipitata a scapicollo verso l’imminenza del futuribile prossimo, possono sembrare un tempo esorbitante, ma tanto è trascorso dall’uscita di un disco passato perlopiù inosservato (parlo dal punto di vista della mia garitta) e che ritrova oggi un rilancio necessario dopo l’affinamento delle capacità d’ascolto della platea globale; perché le ipotesi di questa diacronia potrebbero essere varie e riguardare sia l’effettiva maturità del pubblico che segue queste musiche avanguardiste, oppure la lontananza spaziale di São Paulo (Brasile) dal resto del globo, o la limitata tiratura del vinile (1000 copie) o chissà quale altro inghippo produttivo/promozionale. resta il fatto che nomi come Naná Vasconcelos, Mike Ladd o Rob Mazurek non dovrebbero essere propriamente sconosciuti al di fuori del continente sudamericano: e ritrovarli assieme non dovrebbe che moltiplicare il grado di attenzione nei loro confronti. ma procediamo con ordine: è il 2002 quando Rodrigo Brandão, Maurício Takara e Guilherme Granado (quest’ultimi due fanno rima con São Paulo Underground) entrano in contatto per diverse traiettorie con il produttore americano Scotty Hardy. i tre brasiliani vengono sobillati dal produttore ad incrociare la carriera del vulcanico Mike Ladd che ne intuisce le contiguità delle rispettive parabole artistiche. ma è soltanto nel 2008 che questa empatia inizia a dare frutti: Rob Mazurek ha preso domicilio in città (São Paulo) e iniziato frequentazioni con i due di cui sopra, Lurdez da Luz rappava da tempo nel Mamelo Sound System di Brandão e il 2009 li vede iniziare a proiettarsi nella dimensione live. in alcune di queste esibizioni vengono raggiunti sul palco da sua santità percussiva Naná Vasconcelos. la frittata è fatta. (in piedi da sinistra) Mauricio Takara, Rob Mazurek, Lurdez da Luz, Scotty Hardy (foto). (seduti da sinistra) Rodrigo Brandão, Mike Ladd (foto), Guilherme Granado e Naná Vasconcelos (foto). eccoli in posa calcistica, in formazione completa, carne ossa e cartonati. sono loro che entrarono nello studio di registrazione di São Paulo ribattezzandosi Ekundayo: anche il nome avrebbe far dovuto drizzare le orecchie, sia che fosse preso a prestito dalla tradizione yoruba che dal personaggio del celebre romanzo New Thing di Wu Ming 1. fatto sta che Ekundayo diventa ragione sociale e titolo di una buona manciata di musiche che prendono la via statunitense per essere pettinate nel mixer di studio di Scotty Hardy.

Ekundayo vede la luce il 29 novembre 2011 per l’etichetta Ropeadope. 1000 vinili a riverberare l’incontro (scontro) fra le diverse realtà che compongono l’anima poliedrica del gruppo: detriti suburbani, anime rappanti, stiliti dell’avant-jazz, depositari della tradizione afrobrasilica e nipotini del tropicalismo. un incrocio affollato nel groviglio stradale metropolitano dove giungono contemporaneamente a collidere diverse vetture provenienti da varie direzioni: un crash notturno ed indolore, con luci che continuano a riflettersi intermittenti sull’asfalto bagnato. una scena di una qualsiasi metropoli globalizzata, non importa se sia New York o São Paulo o qualsivoglia agglomerato modernizzante. c’è certamente molto hip-hop (brasilico o afroamericano che sia) mescolato alle voci amazzoniche del retaggio nazionale, i sogni siderali di Mazurek (inconfondibili) ridestati dall’urgenza politica e sociale di qualsiasi protesta che si alza dalle periferie dell’urbe: e poi elettronica e funk a scuotere l’amalgama!

e dopo due anni da quel sinistro le parti coinvolte ritornano a constatare amichevolmente che la dinamica si potrebbe ripetere e reiterare, riproporla dal vivo (proprio in questi giorni a São Paulo) e ritoccare con il pennello il tono greve della prima copertina. ecco dunque una nuova edizione del disco (la medesima sostanza musicale del 2011) in uscita per la Selo SESC che ha evidentemente compreso il potenziale inespresso e incompreso di quell’incontro.

e chissà che non ci scappi un seguito, un tour oltre i confini paulisti o chissà quale conseguenza: Mike Ladd e Rob Mazurek non ci tengono certo a corto di sorprese, e dal Brasile giunge oramai gran parte dell’afrofuturismo che piace immaginare.
diciamo, scherzando con questo tempo sfuggente, che ha due anni e non li dimostra.
e che merita l’attenzione di chi vuol restare attento. buon ascolto.

Pubblicato in 2011, 2013 | 6 commenti

Ai Confini Tra Sardegna e Jazz 2013
una cronaca di s.c.

poco più di un mese addietro tramutai questo blog in una minuta cassa di risonanza per estendere il più possibile la richiesta d’aiuto da parte degli organizzatori del festival sardo Ai Confini Tra Sardegna e Jazz. da lì a qualche giorno giunse, per fortuna, la notizia che un accordo era stato trovato e che il festival avrebbe avuto degno svolgimento. confessai il mio rammarico per non potervi partecipare ma non feci mancare il mio seppur minimo sostegno. fra i benevoli lettori di queste pagine ero certo che avrei trovato sostenitori, appassionati e frequentatori di questo prestigioso festival (vado estremamente fiero delle persone che gentilmente passano da qua, mi si permetta la confessione): e fra loro iniziai una conversazione (diciamo) privata con uno di loro.
SfasciaCarrozze (con le minuscole o le maiuscole e d’ora in poi soltanto s.c.) sostiene coltamente le vicende di queste sponde da parecchio tempo: non appena ho saputo che a quel festival avrebbe partecipato mi sono permesso di chiedergli un rapporto (un resoconto? un liofilizzato? una cronaca?) dalla platea di quella manifestazione. il fatto che abbia amabilmente accettato mi conferma la natura gentile e cordiale dei lettori del blog ed in particolar modo della sua, sia ben detto. e per questo lo ringrazio.
e allora ecco di seguito le parole (e le foto) di s.c., che a quel festival ha assistito e così lo ha raccontato a me e a chi vorrà leggerne. ancora grazie. buona lettura.

Da ateo convinto posso affermare senza remore che quest’anno l’organizzazione, ma soprattutto l’effettivo svolgimento, del Festival in quel di S.Anna Arresi, giunto alla ventottesima edizione, ha assunto i crismi dell’autentico miracolo: dato per definitivamente sospeso, a causa dei soliti insoluti ergo allucinanti problemi di natura meramente istituzional-economica-burocratica a meno di venti giorni dalla data di previsto inizio la rassegna infine e nonostante tutte le difficoltà ha preso il via mantenendo in larga parte invariato il cartellone ufficiale a suo tempo calendarizzato grazie anche e soprattutto alla cocciutaggine del pàtron Basilio Sulis, dei suoi fedeli sodali et altresì alla comprensione e solidarietà degli artisti chiamati a calcare il palcoscenico prospicente l’emiciclo posizionato sotto l’arcaico Nuraghe Arresi.
Per una concatenata serie di congiunture astrali sfavorevoli ho potuto presenziare solo a un miserrimo terzo delle nove serate previste in cartellone: d’altronde sono oramai abituato a considerare normale se non del tutto soddisfacente la percezione della ricolma parte inferiore del famigerato bicchiere mezzo pieno.
Ma ciancio alle bande: il Festival inizia di fronte a un non nutritissimo pubblico la sera del 22 agosto con i promettenti giovan(ssim)i cosmodelici afro-jazz-punksters provenienti da South-East London, United Vibrations. Ensemble composto dai tre fratelli Dayes rispettivamente impegnati su batteria, basso elettrico e fiati e dal sassofonista Wayne Francis: un set di poco meno di un’ora nel quale hanno snocciolato con fresca naturalezza larga parte del proprio non vastissimo repertorio conosciuto (il notevole album di debutto “Galaxies Not Ghettos” risalente al 2011 e “We Never Die” EP di recentissima coniazione) con un progressivo coinvolgimento della platea; piacevolissimo, tra i tanti, il rimaneggiamento in idioma spaghettricolorico di “No Space No Time” divenuta per l’occasione “Non c’è spazio Non c’è Tempo” con conseguente ilarità e gradimento dei sempre più ammaliati astanti. Davvero un ottimo set per un ensemble tanto giovane quanto in prospettiva assai promettente come peraltro dimostra l’EP, gratuitamente scaricabile dal bandcamp, del gruppo britannico. Giusto il tempo di smobilitare la parca strumentazione dei giovani virgulti della Terra d’Albione che prende subitaneo possesso del palco, inizialmente in maniera quasi timida, l’istrionico vocalista d’origine trinidadense Antonio Giuseppe (Anthony Joseph n.d.r.) coadiuvato dalla davvero possente Spasm Band; nell’arco di dieci minuti primi il funk corposo e viscerale del quintetto istiga alla spasmodica/allegra danza anche i più statuari ergo inamidati spettatori presenti: letterale tripudio sotto & sopra il palco! Le umane gesta del James Brown, almeno per una volta, possono essere adeguatamente citate senza creare scompensi che osino distogliere dal pacifico riposo le inanimate spoglie del vocalist della South Carolina: qua fuori esiste ancora qualcuno in grado di onorarne degnamente, fatti i debiti distinguo del caso, fasti & gesta.

Orbene saltando a piè pari i [non visti] The Heliocentrics – di cui mi testimoniarono on stage un gran bene, ahimé – giungiamo alla serata del sabato ventiquattro nella quale sono previsti dapprima il particolare progetto denominato Natural Information Society, trio guidato dal felpato polistrumentista Joshua Abrams indi a seguire il folle duo Talibam!, coadiuvati eccezionalmente in questa sede da Mr. Peter Evans and Sir Alan Wilkinson, rispettivamente impegnati a devastare trombette varie e sassofoni assortiti. Il trio che dovrebbe scaldare (o anche raffreddare, ça va sans dire) l’audience, anche per l’occasione non particolarmente foltissima, accomodatasi tra i gradoni prospicenti il palco sviluppa una serie di brulli et tortuosi mantra magnetico-magmatici nei quali l’harmonium della inamovibile Lisa Alvarado si compenetra agli ordinati contrappunti percussionistici orditi da Chad Taylor, all’interno dei quali il bassista della scuola di Chicago costituisce un solido, diversificato quanto insistito tappeto ritmico grazie all’ausilio di essenziali quanto arcaiche strumentazioni di matrice africana oltre che dell’abituale contrabbasso. Un modulo espressivo decisamente autoctono quanto forse un filino, diciamo così, monotematico e, almeno per quanto mi riguarda, non esattamente del tutto epidermicamente coinvolgente: i convinti applausi dalla platea e il bis richiesto a gran voce testimoniano esattamente il contrario di quanto appena sostenuto.

E così dopo aver incrociato quel mattacchione di Matt (Mottel) spacciare deliberatamente autoctoni vinili, ciddì e t-Scerts all’interno del microchioscobar (qualcuno scambiandolo per uno dei baristi gli ha pure chiesto due birre..) ecco salire sul palco la premiata ditta Shea+Mottel in minacciosa formazione allargata: conoscendo la eterogenea follia dei nostri – basti ricordare il loro avulso disco Rap pubblicato lo scorso anno – non sapevo esattamente dove sarebbero andati a parare e, puntualmente, hanno sconvolto l’audience con un letterale uragano di leggiadre cacofonie assortite d’ambito squisitamente frì-gezz sotto forma di quattro pachidermiche suites (più bis di quasi mezz’ora) nei quali i quattro scellerati bisonti di cui sopra non hanno dimostrato la benché minima intenzione di far prigionieri: il tornado emesso dalla amplificazione lascerà non a caso liberi parecchi di abbandonare prematuramente la postazione; i quattro maudits sembrano divertirsi un mondo lassù: quiggiù invece taluni hanno la sensazione che il confine, talvolta labile in ambiti artistici così incompromissori, della presa per il fondello possa talvolta venir travalicato senza particolari avvisi: spezzoni da ventiminutiprimi dove la batteria di Mr. Shea resta in infinita-rullata-perenne e le tastiere di Mottel vengono più percosse e smanacciate che prestidigitalmente suonate possono provocare qualche dubbio (o forse, per qualcuno, certezza) in tal senso: per quanto mi riguarda concerto “divertente” quanto spakkaossa, magari consigliabili a gente dall’udito già pesantemente leso se non irrimediabilmente compromesso.
E così giungiamo all’ultimo tassello della XXVIII edizione del Festival, probabilmente l’evento più atteso dagli appassionati di jazz e dintorni che sono passati per la Piazza del Nuraghe nel corso degli ultimi dieci giorni; protagonista sul palco è l’immortale e multicromata cometa denominata Sun Ra Arkestra che fa la propria seconda comparsa nei cieli stellati di S.Anna Arresi a distanza di 24 anni dal primo passaggio avvenuto nell’oramai lontano 1989. La direzione dei lavori nelle ultime due decadi è stata affidata al giovane virgulto Marshall Allen che alla tenera età di ottantanove primavere si diverte a passare senza alcuna difficoltà dal sax alto al flauto, al clarinetto, kora e evi. Dimenticavo: tra uno strumento e il successivo riesce a prestare la propria ugola al canto di supporto alla corpulenta Tara Middleton! Il palinsesto promulgato dall’ensemble, attualmente stabilizzatosi intorno agli undici elementi, non sembra essere minimamente intaccato dal tempo, anzi: l’Arkestra da subito ammalia e trascina la finalmente folta platea riunita nell’emiciclo con una corposa performance di quasi due ore a base di un vivace e diversificato set che passa agevolmente da brani swing-oriented a più rudi scorrerie free con un orecchio rivolto, necessariamente, al passato e l’altro teso decisamente al futuro.

Un ottimo concerto quale degna chiusura di una manifestazione che, occorre sottolinearlo e affermarlo una volta di più, nell’annus domini MMXIII qualitativamente si afferma e conferma come uno tra i più interessanti festival jazz italiani se non continentali; visti i chiari di luna nefasti che hanno caratterizzato l’appropinquarsi all’evento, si spera che l’anno venturo sia possibile avere l’opportunità di poter assistere alla ventinovesima edizione. Anzichénò
s.c.

Pubblicato in 2013, Ao Vivo, zzaj | 2 commenti

Tiganá Santana
The Invention of Colour

capita a volte di sentirsi in trappola, piacevolmente in trappola. impossibilitati a scappare e, in fondo in fondo, nolenti alla fuga. potevo davvero non parlare di questo disco? io non credo. potevo rimanere indifferente al nome di battesimo di questo giovanotto brasiliano? Tiganá, Tiganá Santana: per chiunque sia nato qualche decennio addietro (diciamo almeno quattro) facendo parte della specie maschile e vagamente interessato alle vicende del football della sua adolescenza il nome di Tiganá evoca immediatamente un campione (nato maliano e poi naturalizzato) francese dalle finezze (pre)zidaniane e dal nome spudoratamente salgariano: Jean Tigana.
aggiungiamo che il ragazzo è nato in quel di Salvador de Bahia e che ha appena ricevuto l’investitura di meraviglia brasileira da due nomi come Gilberto Gil e NanáVasconcelos, che stravedono per lui. se non bastasse tutto questo per cadere irretiti si potrebbe aggiungere che la stampa internazionale non ha esitato a paragonare le sonorità e le atmosfere di Tiganá Santana alla versione brasiliana più verosimile dell’arte di Nick Drake. serve altro? partecipano al disco anche la voce della talentuosa Mayra Andrade (da Capo Verde) e la kora maliana di Maher Cissoko (compagno di etichetta del nostro). Tiganá Santana canta in inglese, francese, portoghese ed in kikongo, l’antica lingua dei suoi antenati a riallacciare i nodi di quel ponte afro-brasiliano mai davvero interrotto. touché, mi arrendo.

ma ciò sbalordisce è che le promesse che anticipano questo ragazzo sono assai più che mantenute: Tiganá Santana ha talento, stile, una voce che evoca Nick Drake (come negarlo) ma anche altri giganti della vocalità afroamericana (Milton Nascimento e Terry Callier per non fare nomi) ed il suo disco (il secondo dopo l’esordio indipendente di Maçalê) ha bellezza e fragranza da lasciare basiti.

The Invention of Colour (Ajabu!, 2013), registrato in Svezia, è un tuffo elegante dentro le radici africane della tradizione brasiliana, con l’afflato appreso dalla bossa e la spiritualità dei canti in onore degli Orisha. Tiganá Santana accarezza la sua chitarra tamburo a cinque corde dalla parte mancina e si accompagna con la voce, chiudendo gli occhi e sognando come già fece Dorival Caymmi di fronte al suo mare. eleganza, raffinatezza, le percussioni appena accennate e un universo immenso di cultura difficilmente narrabile in sole nove canzoni originali. forse questa Elizabeth Noon racconta assai di più…

The Invention Of Colour assomiglia sin troppo al disco che non mi aspettavo più di ascoltare, per tutti quegli innumerevoli retaggi che mi appartengono, per l’equilibrio e l’eleganza, per quella rete di memorie e suggestioni che hanno finito per intrappolarmi. si potrebbe forse obiettare che questa musica si rivolge palesemente all’indietro a rileggere una tradizione immensa e mai definitivamente esplorata, ma conosco peccati peggiori.

incantevole, nient’altro da aggiungere.
buon ascolto

Pubblicato in 2013 | 8 commenti

Yamandu Costa
Continente

inizierei appuntando una data al calendario: lunedì 16 settembre prossimo all’Auditorium Parco della Musica di Roma (ore 21,00, info). è lì che chi vorrà potrà vedere esibirsi il fantasmagorico talento del più celebrato pupillo della chitarra brasiliana moderna.
Yamandu Costa non è certo un nome nuovo per chi porge le orecchie da tempo in direzione dell’universo musicale brasiliano, non lo è il suo volto pacioso da fanciullo mai cresciuto e neppure la sua tecnica strabiliante unita ad un’espressività che me lo ha fatto spesso paragonare (nei miei pensieri) ad un Glenn Gould della chitarra. ma per chi non lo conoscesse, beh allora, vale la pena sapere che da qualche parte del globo vi è qualcuno che imbraccia una chitarra classica a 7 corde (esplicitamente fabbricata per lui dal mastro liutaio Tércio Ribeiro) e suona come forse assai pochi altri sono in grado.

Yamandu Costa (classe 1980) ha iniziato a giocare con la chitarra sin da bambino e pare non abbia ancora smesso: forse è proprio in questo approccio insieme giocoso e curioso che si annida il segreto di questa vulcanica creatività unita ad una tecnica esorbitante. tecnica che si è andata affinando come lo fa la lingua dei lattanti che dalla lallazione giungono in età adulta a declamare i versi di Walt Whitman; così Yamandu ha appreso ad esprimere ogni suo divertimento ed ogni più profonda emozione traducendoli in ritmi, tablature e diteggiature. vederlo suonare (ancor più che ascoltarlo) è realmente un’esperienza strabiliante: lo stesso incanto che ci può rapire mentre si osserva un fanciullo beatamente affaccendato nelle sue giocose faccende.

ma il ragazzo, almeno anagraficamente ed artisticamente, è cresciuto, e da molti anni si dedica all’esplorazione indefessa dell’enorme patrimonio musicale del suo paese, suonandolo, rispettandolo ed arricchendolo di nuove straordinarie composizioni. lo ha fatto anche da pochi mesi con la pubblicazione del suo ultimo disco uscito per la mirabile Biscoito Fino. Continente è il titolo del primo capitolo di una trilogia che Yamandu Costa ha voluto ricalcare sui tre volumi che compongono l’epopea letteraria O Tempo e o Vento dello scrittore Érico Veríssimo, grande affresco dell’anima della regione del Sul do Brasil, terra natìa di Yamandu.
11 composizioni originali scaturite dalle corde di Yamandu Costa e del suo sodale bassisita acustico Guto Wirtti; e con loro l’altra chitarra a 7 corde di Arthur Bonilla a rinnovare l’antica tradizione dei trìi di corde così profondamente legata alla storia della musica latina in genere.
suoni apparentemente lontani dalla nostra contemporaneità eppure così strabilianti nella loro natura immacolata, pura: melodie d’altrove, oniriche e affondate nella memoria delle genti di quei luoghi ed eppure così vivide nel raccontare una speciale maniera di leggere la bellezza. in più Yamandu le suona così…

…con quella faccia un po’ così di chi ha un nome che farebbe invidia a Salgari ed una capacità espressiva che annichilisce chiunque abbia mai azzardato prendere in mano una sei corde. ribadisco il fatto che vederlo suonare dal vivo è un’esperienza unica (per questo torno a segnalare la data italiana imminente) e che pure ascoltare queste musiche nel fragile e malinconico passaggio di stagione incombente è un privilegio per cui è bene ringraziare questo Peter Pan delle 7 corde.
buon ascolto

Pubblicato in 2013 | 8 commenti

Cüneyt Sepetçi & Orchestra Dolapdere
Bahriye Çiftetellisi

credo si debba essere grati a musicisti come Jeremy Barnes! grati oltreché alla musica dei suoi A Hawk and A Hacksaw (naturalmente assieme alla sodale Heather Trost, sia ben detto) anche alla sua missione di etnomusicologo curioso che esercita in qualità di fondatore e boss della sua etichetta L.M. Dupli-cation. grati perché il costante perigrinare per il mondo in un never ending tour del suo gruppo viene però espletato con l’orecchio attento del musicofilo innamorato delle musiche turbolente che infestano i balcani (per tentare una definizione in genere). e quindi se da una parte si suona e si viaggia, dall’altra si ascolta e si annota e magari succede pure che si riesce a portare in studio di registrazione chi uno studio di registrazione non l’ha mai visto per indefessa vocazione alla strada ed un’esistenza ribelle, scarmigliata e gitana.
nell’estate del 2012 A Hawk and A Hacksaw sono ad Istanbul: un buon informatore li spinge nel quartiere di Dolapdere dove vive la maggior parte dei rom stabilitisi in città. fra questi vi è un musicista che da quattro generazioni porta avanti l’arte sublime del clarinetto rom, di padre in figlio fino a giungere a lui, come un griot africano, attraverso le migrazioni che hanno spinto il suo popolo dalla Tracia (Thessaloniki) fino alla Turchia in seguito allo stesso conflitto che “espatriò” anche la musica rebetika dal suo territorio d’elezione. è così che la grande comunità dei rom turchi ha nel quartiere di Dolapdere la sua più vivida e colorita rappresentazione e nel baffuto Cüneyt Sepetçi il clarinettista più rappresentativo delle musiche di queste genti.

musiche che hanno attraversato terre ed acque spostandosi assieme ad un popolo errante e dromomaniaco: musiche che hanno innervato le tradizioni popolari incontrate e rubato da esse trasformandosi, imbastardendosi e mutando per non morire. dentro il caleidoscopio inebriante della musica di Cüneyt Sepetçi e della sua Orchestra Dolapdere la tradizione rom si mescola con canzoni popolari albanesi, macedoni e spagnole adattate alle sonorità e ai ritmi turchi del luogo del provvisorio stanziamento.
il clarinetto di Cüneyt Sepetçi è accompagnato da musicisti rom che popolano il quartiere. un violino, un oud, una darabouka e un tapan a reggere i ritmi indiavolati ed un qanun a speziare le musiche con gli stessi profumi che in altri luoghi più a nord emana il cymbalon.

Bahriye Çiftetellisi (L.M. Dupli-cation, 2013) è il frutto di questa seduta di registrazione dove per la prima volta questo gruppo ha avuto l’opportunità di incidere le musiche che da molti anni portano per le strade a celebrare le cerimonie, i matrimoni, le circoncisioni ed ogni tipo di festeggiamento degno di chiamarsi tale. un’istantanea inebriante di un suono sublime, selvatico ed elegante al medesimo tempo: irrequieto ed errabondo come il destino delle genti che lo hanno generato, sinuoso e regale come le epopee del più fiero dei popoli.
per le orecchie di chi scrive questi suoni sono il più immaginifico viatico alle scorribande fra illusioni di viaggio nel tempo e nello spazio, e Jeremy Barnes sfonda qui una porta già ampiamente spalancata del mio ludibrio. mi auguro sia l’inizio di una bella migrazione sonora anche per chi avrà voglia di intraprenderla. buon ascolto.

Pubblicato in 2013 | 3 commenti

Yarou Diguidirou, Boukakarou, Groupe Super
Bénin: Musique Bariba

fra le tante etichette discografiche (visionarie e coraggiose) capaci di condurre gli ascoltatori in splendidi luoghi d’ailleurs (un’altrove indefinibile) non mi pare di aver mai menzionato in queste pagine la francese Ocora, diretta emissione e branchia della Radio France nazionale. me ne scuso, me ne rammarico e provo a porre rimedio.
l’intento dell’etichetta è quello di esplorare, nel più puro spirito etnomusicologico, quei luoghi del globo terracqueo ancora in grado di emettere un suono autentico, vitale ed il più possibile incontaminato dalla globalizzazione galoppante. luoghi impervi, inimmaginabili, lontani, d’ailleurs appunto. come la regione storica del Borgou, incastonata fra le sponde del fiume Niger e la catena montuosa dell’Atacora: luogo in bilico fra le nazioni di Niger, Nigeria e Bénin. è in quella terra che vive la comunità Bariba: 600.000 anime di fede musulmana suddivise in diverse componenti etniche e con una lingua (un dialetto) comune denominato dendi. fino laggiù si sono spinti i microfoni dell’etichetta di Radio France per provare a riportare all’occidente parte delle musiche della comunità Bariba.

Yarou Diguidirou, Boukakarou, Groupe Super Bénin: Musique Bariba (Ocora, 2013) prova a raccontare parte di questo patrimonio culturale suddividendosi in tre parti e raccogliendo le musiche ed i canti di tre diverse realtà di questa cultura. Yarou Diguidirou è un griot dalla voce magica e straziante: accompagna il suo canto con un liuto a tre corde con anelle metalliche fissate al manico dello strumento che vibrano e risuonano alla percussione delle corde (è detto dambararou); con lui Mouhamed Baboni al gon, una percussione fatta risuonare da una sola bacchetta e a tonalità variabile a seconda della tensione della pelle. le canzoni di Yarou Diguidirou hanno lo spirito epico degli avi e le epopee delle genealogie aristocratiche come orizzonte.
Boukakarou sono invece un gruppo di etnia hausa composto da quattro elementi e con la voce di Adama Mamon Guogué in bella evidenza: è il suo canto ad incarnare la funzione terapeutica di guarigione per malati e posseduti. con lei i tamburi della tradizione e l’ipnotico incedere del vièle e del gogué (strumenti a corda suonati come un violino: come quello raffigurato in copertina del disco).
la terza incarnazione della cultura Bariba è rappresentato dal Groupe Super: ensemble vocale femminile composto da una solista e dal coro intona lodi al profeta e difende il ruolo femminile nella società autoctona. il loro call and response è sorretto da due percussionisti al bararou e al gon: un incanto epifanico nel quale non sarà difficile riconoscere le origini di molte manifestazioni culturali approdate (loro malgrado) sull’altra sponda dell’Atlantico.

un piccolo spaccato della vita e delle musiche di un popolo che difficilmente avrebbe varcato i confini dei propri territori se la lungimiranza di questa etichetta non avesse messo in campo tutto lo spirito di ricerca che la contraddistingue. per chi si diletta con le musiche africane potrebbe rappresentare un piccolo universo inaudito: riconoscibile ed eppure così diverso da altre rappresentazioni del grande continente.
un fotogramma acustico di una lunga storia che non ha esaurito la sua parabola: un talismano sonoro da tenere a portata d’orecchio, un suono capace di portare altrove, lontano. una bellezza intonsa, atavica, pura.
buon ascolto

Pubblicato in 2013 | 3 commenti

Ai Confini Tra Sardegna e Jazz 2013
Sant’Anna Arresi

queste righe che seguono sono una cassa di risonanza per un appello che mi sta a cuore. sono anche un sostegno, un aiuto e la speranza che i sogni non debbano cessare di essere sognati. chi frequenta questo blog potrebbe (me lo auguro) conoscere uno dei più prestigiosi festival di musica jazz presenti sul territorio italiano, e più precisamente in quella terra di Sardegna così lontana ed eppure così vicina a noi del continente.
Ai Confini Tra Sardegna e Jazz si svolge da quasi trent’anni in nel piccolo paese di Sant’Anna Arresi in provincia di Carbonia-Iglesias (nella regione storica del Sulcis Iglesiente) a cura dell’Associazione Culturale Punta Giara. in questi lunghi anni il festival ha ospitato coraggiosamente (ed orgogliosamente) i nomi di punta dell’avanguardia e dell’improvvisazione jazz italiani e soprattutto internazionali creando un’eccellenza culturale laddove le meraviglie di un territorio si coniugano con il coraggio della musica più immaginifica che si possa sognare. non elencherò i nomi di questi musicisti, ma basta pensarne anche solo uno e si può star certi che questo a Sant’Anna Arresi ha suonato.

ma quest’anno il sogno della rassegna rischia un brutto risveglio seguito dall’incubo di una forzata interruzione: i motivi sono esattamente quelli che si possono immaginare. quei tagli alla cultura che uccidono la residua intelligenza di un paese allo sfascio e falciano quelle realtà che nel tempo sono state capaci di costruire concreta cultura, immaginazione, avanguardia e bellezza. la rassegna è davvero a rischio e a poche settimane dal suo inizio l’Associazione Culturale Punta Giara prova a ricorrere all’aiuto del suo pubblico, degli appassionati e degli strenui difensori del senso logico delle cose (belle). una sottoscrizione con varie forme e modalità per tentare di salvare il salvabile, un grido di aiuto per evitare di affondare nella marea olezzante che sommerge il paese.
queste righe vogliono essere il sostegno a questo festival, al coraggio che sta animando le persone che lo curano e al buon senso di chi ha a cuore questa musica e quel territorio.
per non smettere di sognare…
(dal sito della rassegna)
“Il festival sembra costretto ad interrompere la sua storia trentennale e rinunciare a quella che sembrava una scommessa impossibile, ovvero riuscire a portare nel piccolo paese di Sant’Anna Arresi il meglio della musica jazz di tutto il mondo. Per trenta lunghi anni ci siamo riusciti e nonostante tutte le difficoltà incontrate nel percorso siamo stati capaci, almeno per la durata del festival, di sovvertire equilibri prestabiliti e di mischiare le carte in tavola, tanto da trasformare una piccolissima realtà di provincia in un centro di cultura internazionale.
Abbiamo raggiunto un apice o, come si dice oggi, l’eccellenza. Non abbiamo mai pensato che fosse un vuoto trofeo da esibire nel salotto buono di casa, ma un limite ogni volta da superare per far sentire al mondo intero la voce potente di chi ha la necessità di esistere e di trasmettere un’idea di libertà.
Queste sono cose che solo nei sogni possono accadere e noi, infatti, parliamo di sogno perché chi conosce il nostro festival sa con quanta cura e dedizione, al limite del reale ogni anno, si prepari uno dei programmi più interessantiliberi ed innovativi di tutto il mondo.
Oggi il sogno sembra essere svanito, ma i sogni non sono altro che materia prodotta dai sognatori. Per questo noi crediamo e vogliamo che il sogno continui e riteniamo in questo di non essere soli, visti tutti gli attestati di stima che ci sono pervenuti in questi giorni.
Ringraziamo sentitamente e preghiamo, chi fosse interessato a far continuare la nostra storia, di parlare di noi e di far conoscere il problema a qualunque persona in qualunque luogo della terra. Ogni singola parola ed ogni singola azione spesa per il festival Ai Confini Tra Sardegna e Jazz può produrre effetti straordinari e può aiutarci a resistere.”

Pubblicato in 2013 | 9 commenti

Rod Hamilton
Atitlán

il meriggio canicolare porta, da sempre, acume di percezioni e ottundimento, sonnolenza e beata solitudine: è uno spazio idoneo per suoni immaginifici, onirici, per innocue allucinazioni e divagazioni esotiche. quando la buona sorte sospinta dalla curiosità ci fa giungere ad incontrare sonorità apparentemente pensate all’uopo per quell’ora pomeridiana si compie una di quelle piccole epifanie che appiccicano ancor di più la musica all’esistenza (la nostra), spingendola più a fondo e un poco oltre la percezione cosciente.
sono giunto a Rod Hamilton attraverso uno di quei percorsi sghembi che si fanno in rete, fra rimandi, sponde, suggestioni e parole che si credono fidate: posso confessare di non saper nulla di lui oltre al fatto che proviene da Baltimora e che conta nella sua discografia due episodi: Teal del novembre 2012 e questo Atitlán pubblicato all’inizio di luglio 2013. entrambi pubblicati da per sé, entrambi resi disponibili con la politica sociale del name your price, entrambi avvolti da una coltre di piacevole silenzio e mistero.

di Rod Hamilton neppure una foto, un segno di identità o di riconoscimento: qualche fortunato potrà vederlo dal vivo negli Stati Uniti in alcune date annotate di spalla al suo bandcamp. abbiamo appena una copertina boreale e la consapevolezza che il titolo dell’ultimo lavoro fa riferimento al lago e al vulcano Atitlán collocato nelle alture del Guatemela: a quanto pare Rod Hamilton si è arrampicato fin lassù e dopo una permanenza necessaria a distillarne il suono che percepiva dal paesaggio circostante se ne è uscito con questo disco.

un disco fatto di percussioni stratificate, sovrapposte, reiterate. un disco organico di ambientalismo dell’ascolto, ecologico e biodegradabile all’uso. marimbe, legnetti, campanelle, xilofoni ed elettronica quanto basta per amalgamare il tutto: non una parola, non un field recording, nulla di più che percussioni. non ingannino le molteplici tracce sovrapposte: non di poliritmìa africana si sta parlando quanto piuttosto di una specie di gamelan subacqueo un poco ottuso, imbambolato e primordiale. assai poco concesso all’armonia ma molto dello sforzo compositivo a definire la cifra materica delle composizioni, la loro natura fisica di suggestione ed intreccio.
piuttosto che sperticarmi a raccontare preferisco consigliare l’ascolto magari in quel tempo della giornata che i napoletani chiamano controra: un momento in cui la sonnolenza, qualche allucinazione e qualche residuo di thc sclerotizzato dal tempo nelle arterie possono incontrare degnamente questi suoni storditi e suggestivi. e se dovesse sopraggiungere il sonno auguro almeno di sognare il Guatemala ed i fiori della copertina, fiori del Guatemala (ma questa è già un’altra storia).
buon ascolto

Pubblicato in 2013 | 1 commento