Bi Kidude (1910?-2013)

era nata a Mfagimaringo (Zanzibar) in una data incerta attorno al 1910, figlia di un raccoglitore di cocco che le aveva dato il nome di Fatma binti Baraka ma tutti la chiamavano Bi Kidude (dal diminutivo che caratterizzava il suo aspetto piccolo, esile, gracile). era celebre in tutta Zanzibar e Tanzania come la più celebre interprete della musica taraab e unyago: una vera e propria regina ancor più di quella Siti binti Saad della quale la stessa Bi Kidude aveva cominciato ad ascoltare i primi dischi incisi sin dal 1920. era nata in una data incerta e se ne andata il 17 aprile di quest’anno dopo aver cantato, fumato, bevuto e partecipato ai riti della sua collettività sino agli ultimi giorni della sua vita. la nazione, per questo suo senso di appartenenza e rappresentazione di una intera cultura, le ha riservato i funerali di stato.

e per troppi anni Bi Kidude è stata pure un segreto di stato: almeno fino al 1989 quando assieme ad un gruppo musicale fece da ambasciatrice in Germania alla musica e alla cultura di Zanzibar. chi la vide allora non poté fare a meno di far partire un passaparola che da allora ha ingigantito la sua celebrità fino a farle raggiungere l’acclamato premio del Womex nel 2005 ed il rispetto e l’ammirazione di tutti i cultori della musiche del mondo. nel frattempo lei non ha mai smesso di accompagnare con i suoi canti e le sue percussioni i matrimoni e le cerimonie di passaggio della vita delle ragazze del suo villaggio: una vera e propria autorità, splendida nei suoi abiti cerimoniali, iconica, scolpita dalle rughe del tempo, con l’immancabile sigaretta e la sensazione che non ci avrebbe mai lasciato.

a dispetto di una carriera pluridecennale la scelta discografica è piuttosto scarna. andrà di certo segnalato il volume uscito nel 2006 per la Buda Musique nella collana Zanzibara ed una retrospettiva uscita qualche anno prima (2003) per l’etichetta RetroAfric dal titolo Zanzibar. musiche che si affacciano sul Pacifico portandosi dietro la tradizione africana e subsahariana e guardando a tutte quelle culture sud asiatiche che su quel mare si bagnano, in un gioco di sponde, rimandi e tradizioni che hanno mescolato le culture e le genti. ed è su queste musiche che si accomoda la voce sgarbata ed organica della grande chanteuse isolana a raccontare le canzoni e le gesta del proprio popolo.

per fortuna a carpire un poco della memoria musicale e visiva di questa grande artista africana ci ha pensato il documentario di Andy Jones intitolato As Old As My Tongue The Myth And Life Of Bi Kidude (Screen Station, 2006) dal quale mi piace proporre l’inizio in cui Bi Kidude canta Alalminadura (una delizia instancabile)…

qualche tempo addietro un fidato e sodale emissario si recò a Zanzibar per questioni lavorative ed a lui affidai il compito di sapere (e magari vedere) di più a proposito di Bi Kidude: se ne tornò con la garanzia che era ancora vispa e cantante. questo fino all’aprile di quest’anno quando è giunta la notizia della sua scomparsa.
un saluto da parte mia a Bi Kidude e il consiglio di ascoltare la meraviglia della sua musica. bye bye Bibi.

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Various Artists
Stand Up, People
Gypsy Pop Songs from Tito′s Yugoslavia, 1964-1980

quattro anni addietro preparandomi a percorrere migliaia di chilometri nella ex-Jugoslavia alla ricerca dello spirito di quei luoghi tentai approssimativamente di raccogliere quante più musiche “idonee” per accompagnare quel viaggio. qualcosa che accompagnasse lo scorrere dell’auto, che lo anticipasse e lo sonorizzasse con i suoni che immaginavo abitassero quella terra: un miscuglio immaginifico di ciò che mi aspettavo che fosse, di quanto conoscevo e di improvvisata nostalgia d’altrove. non sapevo che la perfetta sintesi di ciò che avrei voluto mi accompagnasse doveva ancora essere raccolta e compilata. musiche che avevano effettivamente abitato quei luoghi fino al 1980: anno della scomparsa dell’incomparabile artefice di quella (forzata) coesione nazionale che rispondeva al nome di Josip Broz, da tutti conosciuto con il nome partigiano di Maresciallo Tito. e proprio a lui e alla scansione temporale che identificò l’ultimo periodo della sua influenza fa riferimento il titolo del disco compilato e raccolto meticolosamente da Philip Knox e Nathaniel Morris per l’etichetta Vlax Records e distribuito in collaborazione della prestigiosa Asphalt Tango.

Stand Up, People: Gypsy Pop Songs from Tito′s Yugoslavia, 1964-1980 (Vlax Records/Asphalt Tango, 2013) esplica già nel suo titolo l’essenza meravigliosa racchiusa in queste 19 perle (semi)sconosciute della cultura del popolo rom. fu proprio Tito il primo (l’unico?) statista a riconoscere e dare dignità culturale (e politica) all’eterogenea natura del popolo rom: questa accettazione accondiscendente si palesò persino nelle hit musicali popolari che abitarono la cultura di tutta la ex-Jugoslavia nel periodo preso in considerazione dal disco. Philip Knox e Nathaniel Morris sono andati a scovare questi dischi nei mercatini delle pulci, negli archivi musicologici nazionali e nella continua interrogazione della memoria di un popolo sfuggente (quello rom) mescolato oramai ad un popolo diviso (quello jugoslavo). è lì che hanno scovato i primi tentativi da parte dei musicisti rom di mescolare la loro tradizione secolare con i suoni e le strumentazioni che invasero gli anni ’60 con il beat ed in seguito i ’70 con la “plastificazione” del prodotto discografico. Serbia, Bosnia, Macedonia e Kosovo: da una parte all’altra della penisola balcanica a scoprire veri e propri gioielli musicali che rischiavano l’oblio del tempo.

si va così da Esma Redžepova incontrastata e riconosciuta regina della musica rom al suo re Šaban Bajramovic: fra questi una serie di altri valevoli musicisti e cantanti minori e poco conosciuti al di fuori di quelle culture. le voci maleducate e strazianti, evocative ed epiche narravano questioni di cuore e nostalgie, di partenze ed umane vicissitudini: le musiche della sfuggente tradizione secolare facevano i (primi) conti con le chitarre elettriche, le tastiere e gli effetti sonori dei nascenti studi di registrazione. è così che i tipici ritmi sobbalzanti e saltellanti una volta sostenuti dai cymbalon lasciavano il posto ai tamburi, alle chitarre usate all’uopo con fare ritmico e ai benedetti clarinetti serpeggianti e costantemente ebbri. e poi fisarmoniche, violini e trombe a completare il corollario di queste canzoni brillanti e fulgide di freschezza e fragrante bellezza.

tentare di districare il groviglio della matassa culturale che ha generato queste musiche è lavoro che lascio ad illusi etnomusicologi; il fascino ed il mistero di questo popolo libero risiede proprio in questo imprendibile passato e non varrà quindi riconoscere qui una melodia flamenca oppure là un tema della tradizione indiana del nord. sarebbe un po’ come dire che nel jazz vi sono evidenti parentele con le musiche africane: si sarebbe detto tutto senza spiegare niente.
preferisco godermi da gagè (i rom dividono l’umanità in rom e non rom, ossia gagè) l’incanto di queste musiche suonate e registrate nella purezza dell’incoscienza di quegli anni, musiche appena edulcorate di quello smalto di plastificazione occidentale per venire incontro al pubblico commerciale cercato al di fuori delle proprie comunità.
per quel che vale confesso che è uno dei dischi più entusiasmanti ascoltati negli ultimi tempi: parola di gadjo!

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Harold Budd
Jane 1-11

dalla senilità ci si attende saggezza, pare un luogo comune e forse pure lo è. ci si attende saggezza ma anche capacità di distillare l’essere fino a ridurlo ad essenza, meticolosa precisione, assenza di fronzoli e concentrazione (nel senso di capacità di concentrare). ci si attendono quelle qualità che (forse) non si sono avute nella propria gioventù irredentista a compensare i tanti inconvenienti che sento lamentare a chi quella stagione della vita la ha già raggiunta. ci si attendono qualità altre e magari quella curiosità e quella passione che santificano l’esistenza degli individui, compresa la passione amorosa.
se poi la senilità raggiunge un musicista e la sua arte è logico attendersi da questa una sublimazione eterea, un raggiungimento della bellezza priva di futilità ed inutili scorie del tempo presente.

Harold Budd (classe 1936) ha raggiunto quel tempo della sua esistenza: la senectude che pare abbia portato in dote al compositore americano i pregi che ho tentato di descrivere più sopra. a dire il vero tutta l’opera di Budd ha sempre anelato all’essenza eterea della nostra esistenza in un percorso minimale ed essenziale verso la distillazione alchemica della bellezza del nostro esserci espresso in parole e suoni.
ma è con questo suo più recente lavoro che mi pare Harold Budd abbia compiuto uno di quei gesti artistici unici e splendidi, di quelli che forse si possono compiere nell’incosciente adolescenza o nella saggezza senile.

Jane 1-11 (Darla Records, 2013) appare straordinario già dall’approccio fattivo: My rules to myself were: No plan, no notes, no ideas, no microphones. (…) At least one piece per day, finished, mixed and not to be revisited again. un afflato giovanilistico ed improvvisativo sostenuto e sorretto dalla grande capacità artisitica maturata nei tanti anni di carriera. un tuffo nel mare sonoro palpitante della propria immaginazione: un mare quieto, caldo, calmo. un mare bagnato di passione (amorosa?) e di contemplazione per la musa Jane Maru a cui queste undici composizioni sono dedicate.
pochi gli strumenti messi in campo: una tastiera, qualche tappeto elettronico, una percussione ipnotica come un pendolo nella controra (Jane 1), un’arpa, uno xilofono, qualche campana tubolare: pressoché nulla la postproduzione (come promesso dall’assunto).
musica contemplativa, meditabonda, eterea, poggiata sul tempo rallentato e lasciata ad espandere nell’eco dei nostri ascolti. Jane 2 (lo confesso) è di una bellezza disarmante e quasi verrebbe voglia di espanderla ad libitum ben oltre i 4:57 della sua durata: ma tutto il disco rappresenta un corpus organico coerente e catartico che richiede ripetuti ascolti e successivi approfondimenti.
ad Harold Budd porgo le mani giunte in segno di riconoscimento per la delicata bellezza della sua musica e per questo assaggio di distillata saggezza senile.
buon ascolto

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la radio uabab #31

Radio Sonora
la radio uabab #31
venerdì 7 giugno 2013 ore 21,00
(replica sabato 8 giugno ore 21,00)
p o d c a s t


Belomi Benna
The Ex & Brass Unbound
Enormous Door (Ex Records, 2013)
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Ein K’elokeinu
Jon Madof
Zion80 (Tzadik, 2013)
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Seasons Change

Quasimoto
Yessir Whatever (Stones Throw, 2013)
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Varosha (Disco Debris)
Yannis Kyriakides
Resots & Ruins (Unsounds, 2013)
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We Are All One with the Moon and Planets

Rob Mazurek Exploding Star Electro Acoustic Ensemble
The Space Between (Delmark, 2013)
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(il suono carsico)
William Basinski
Nocturnes (2062, 2013)
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la radio uabab #30

Radio Sonora
la radio uabab #30
venerdì 31 maggio 2013 ore 21,00
(replica sabato 1 giugno ore 21,00)
p o d c a s t

live e intervista con Francesco Giampaoli
presentazione in anteprima del disco
Danza Del Ventre (Sidecar/ Brutture Moderne, 2013)

Danza Del Ventre
Pugni Al Sacco (live a Radio Sonora)
Firma
Fra Poco I Saluti (live a Radio Sonora)
Tin Tin Deo

in studio
Francesco Giampaoli basso
Antonio Gramentieri chitarra
Diego Sapignoli percussioni
Enrico Mao Bocchini percussioni

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Pascal Comelade
El Pianista Del Antifaz

da qualche parte d’Europa, sulla riviera di qualche località balneare fuori stagione, dovrebbe esistere un locale (chiamiamolo dancing o balera) in cui una sgualcita orchestrina dimenticata in un angolo suona le musiche che Pascal Comelade ha composto appositamente per lei. per lei e per quei pochi avventori allampanati che paiono smarriti, pronti a perdere lo sguardo intontito sull’orizzonte della marina sbatocchiando il piede al ritmo delle musiche che vengono dal fondo del locale. musiche buone per dirsi addio, per tenersi la mano e per ricordare o più semplicemente per perdere tutto il tempo necessario. nelle pause che i musicisti si prendono per fumare qualcuno si alza e ordina un’altra birra infilando una moneta in un vecchio juke-box nell’attesa che l’orchestrina riprenda a suonare.
non è certo che esista questo locale ma vale la pena di cercarlo sulle coste portoghesi o forse su qualche lago baltico, nelle ventosa Normandia o in qualche isola mediterranea: sono certo che lo si potrebbe riconoscere inequivocabilmente avendo nelle orecchie le musiche che Pascal Comelade incide testardamente da quasi 40 anni. del resto la sua natura bastarda (nell’accezione più nobile del termine) lo rende come nessun altro figlio di questa Europa che fatica a sentirsi una cosa sola.

una buona occasione per ricordarsi di questo figliuolo prodigo della tradizione musicale continentale è l’uscita del suo nuovo disco per l’etichetta Because Music. El Pianista Del Antifaz è l’ennesima raccolta di musiche pensate e sognate dal musicista franco catalano, musiche senza parole, colonne sonore di sogni e memorie di un continente dormiente. mentre scrivo non ho schede tecniche o delucidazioni per comprendere chi sia questo pianista dell’Antifaz ma azzardo una mia lettura di questi suoni congrui ed organici: se è pensabile possa esistere un folclore musicale europeo condiviso, atavico e risalente a ben prima delle spartizioni e dei confini fra le genti è assai probabile che questo possa assomigliare per buona approssimazione alle composizioni di Pascal Comelade. valzer, polke e brani buoni ai balli dei festeggiamenti popolari campestri, e poi marce balcaniche, canzoni marinaresche mute da cantarsi con i piedi sulla terra ferma, chansons, effluvi ispanici (flamenco e bolero) e l’inevitabile e prolifica innervatura delle melodie rom e klezmer: il tutto suonato con strumenti poveri, buoni ad essere infagottati alla prima pioggia od al primo pogrom, strumenti giocattolo per riderci sopra, pianole colorate, kazoo, trombette, seghe, xilofoni, flauti e le pernacchie assortite di un giullare divertito che ha il talento della melodia tascabile e fischiettabile.

la sua aria mannara e guascona lo protegge dalle intemperie del tempo e dalle sibille illusorie del successo: lo si potrà ritrovare nella banda di una corrida o a guidare la filarmonica paesana nei giorni della sagra, nel locale più malfamato di periferia o più probabilmente in quel locale sulla spiaggia con la stagione che annuvola senza la coscienza di come ci si è arrivati ma con la netta sensazione di voler restare ancora.
Pascal Comelade è in grado di sciorinare quel suo amarcord sonoro che illanguidisce il cuore ed invita al sogno e alle memorie di un tempo che non si è neppure certi di aver vissuto. e se proprio si vuole fare il nome di Nino Rota ebbene lo si faccia: non credo dispiaccia al nostro Comelade.

16 brani dai titoli buffi ed evocativi, divertiti: musiche buone per ciondolare e bighellonare alla ricerca di quell’angolo d’Europa dove questi suoni potrebbero abitare senza l’ombra di alcun dubbio. qualcosa che assomiglia ad un ballo, ad un viaggio o al languore di un addio.
ben ritrovato Pascal e buon ascolto.

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la radio uabab #29

Radio Sonora
la radio uabab #29
venerdì 24 maggio 2013 ore 21,00
(replica sabato 25 maggio ore 21,00)
p o d c a s t

live e intervista con i Sacri Cuori
presentazione del disco Rosario (Decor Records/ Interbang Records, 2012)

Quattro Passi
Lido (live a Radio Sonora)
Sei (live a Radio Sonora)
Sipario (live a Radio Sonora)
Lee-Show

in studio
Antonio Gramentieri chitarra
Francesco Giampaoli basso
Diego Sapignoli percussioni
Enrico Mao Bocchini percussioni

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I Gatti Mézzi
Vestiti Leggeri

trascurare la triste Italia credo sia doveroso ma lasciare che questo vuoto senza speranza inghiotta anche la musica italiana sarebbe doloso: non tutta, sia ben detto. chi in questo paese ci è nato non può aver fatto a meno di una massiccia dose di canzone d’autore nostrana, parole e suoni consumati, assorbiti, a volte amati e che inevitabilmente hanno costituito un sussidiario per leggere il tempo, le proprie ed altrui emozioni, i sogni, gli istinti politici e per provare a capire questo stivale oramai lordo. rifugiarsi in quella terna (cinquina?) di nomi che hanno portato la nostra canzone ben oltre la bellezza non salverà il resto della penisola che affonda in tedio e bruttezza scambiata per splendore.
in questo blog raramente si affronta la canzone autoriale italiana e non certo per snobismo di chi scrive (ne avrei voglia eccome) ma piuttosto per magrezza di fonti e amarezze diffuse, però sono pronto a scattare quando ascolto qualcuno che davvero mi piace e mi fa fare (per un poco) pace con quella che in fondo è una vecchia passione mai domata.

I Gatti Mézzi spero non siano un nome nuovo per chi legge, ma nel caso lo fossero mi permetterei di presentarli con pochi dettagli: sono un duo (Tommaso Novi e Francesco Bottai) provenienti da Pisa e attivi dal 2005, notati già da alcune giurie più attente e giunti al quinto disco senza giungere alla ribalta che meritano. affondano le loro storie nella provincia (toscana nel loro caso) sfruttando un dialetto (vernacolo pisano) comprensibile (per nostra fortuna) in tutta la penisola; la loro musica e le loro ascendenze sono così piacevoli e così tante che non spenderò una riga per tentare di elencarle, perché non amo etichettare e perché ciascuno che avrà voglia di acoltarli riconoscerà familiarità che appartengono alla canzone italiana nella quale (come si diceva più sopra) sia i Gatti Mézzi che noi siamo cresciuti.

Vestiti Leggeri (Picicca Dischi, 2013) è dunque il loro quinto lavoro e sono loro stessi a spiegare assai bene il motivo di questo titolo in cui è racchiusa la freschezza e la fragranza di queste canzoni: “Vestiti leggeri perché non ci siamo coperti, siamo usciti allo scoperto con un disco che è una confessione, ma non di peccati, non c’è vergogna, non c’è remissione. E’ una confidenza intima, di quelle che fai un po’ briào ar tu’ migliore amico. Gli esterni un po’ di paure. La paura di impazzire, la paura di perdere tutto, anche la casa, la paura di non sapere più cos’è di preciso l’amore, la paura di dimenticarsi un padre che fu, e quella di veder cambiare il posto che ami di più al mondo. Si parla tanto di donne, nel bene e nel male, ma senza fare sconti cavallereschi. E’ anche il tentativo di approfondire in maniera leggera le dinamiche impazzite del linguaggio e dell’espressione che è sempre meno propria nell’era dei social network, dove si copiano e s’incollano citazioni precompilate. Di sicuro è un disco con due piccoli bimbi, Bianca e Furio. Due creature cantate fra le preoccupazioni e le promesse di due babbi ganzissimi.”

escludere la demenzialità credo sia la prima cosa da fare e soprattutto evitare di scambiarla con quel magico dono che i Gatti Mézzi sembrano possedere elegantemente: l’autoironia. autoironia che dovrebbero obbligare per via costituzionale agli apparati tronfi e pericolosi che pilotano ciò che resta di questo paese. ma non volevo parlare di politica. volevo parlare di 11 canzoni da sorseggiare come bicchieri di acqua fresca, canzoni a fior di pelle, vere, vestite leggere: spesso ci si innamora di una canzone perché ci racconta con parole esatte ciò che già sappiamo ma che non trova una forma verbale nei nostri pensieri oppure perché riconosciamo qualcosa o qualcuno, altre volte perché la musica ci sveglia sogni inghiottiti languidamente per osmosi, luoghi, provincie, cittadine con le loro storie ed immancabile personaggi. oppure perché a scrivere queste canzoni sono due babbi ganzissimi beatamente “rincoglioniti” nel guardare crescere le loro piccole creature e a riuscire pure a scriverne fra dolcezza ed ironia: è lì che mi arrendo commosso ed ammetto touché!
canzoni leggere con il sorriso, la giusta ironia, una lucida amarezza, il ricordo di un padre che non c’è più e delle musiche oniriche da fischiettare: oggi non chiedo di più!
buon ascolto

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la radio uabab #28

Radio Sonora
la radio uabab #28
venerdì 17 maggio 2013 ore 21,00
(replica sabato 18 maggio ore 21,00)
p o d c a s t


Dadasophe
Rodolphe Burger & Olivier Cadiot
Psychopharmaka (Derniere Bande Music, 2013)
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Mi Scusi
Teho Teardo & Blixa Bargeld
Still Smiling (Spécula, 2013)
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Papa Francisco

Tom Zé
Tribunal do Feicebuqui (free download, 2013 Ep)
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Solemn 10
Bonnie Billy & The Marquis de Tren
Solemns (Drag City, 2013 Ep)
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Ecoute Ma Melodie
Orchestre Poly-Rythmo de Cotonou
The Skeletal Essences of Afro Funk 1969-1980 Vol.3 (Analog Africa, 2013)
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(il suono carsico)
Mammane Sani et son Orgue
La Musique Electronique du Niger (Sahelsounds, 2013)
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Michael Winograd
Storm Game

non sono certo che difenderei la causa della musica klezmer anteponendola a chissà quale altra tipologia di musica, e neppure potrei giurare di considerarmi un fan assiduo di tutte quelle musiche che continuano a spirare dall’antica tradizione ebraica dell’est Europa, eppure, sempre più spesso mi trovo rapito dai gorghi armonici di queste antiche melodie in quell’avviluppo inscindibile di gioia e malinconia: anche la natura errante di questa tradizione gioca a favore di un mio gradimento, essenza per sua natura dromomaniaca costretta al movimento (volente o nolente) e capace di mescolarsi con le culture e le tradizioni di ogni luogo che ha incontrato.

Michael Winograd probabilmente non è dovuto scappare da alcunché visto che 30 anni addietro nasceva a New York e ancora lì lo si può trovare intanto a studiare e suonare da almeno 20 (anni) la tradizione klezmer capace di tramandarsi maritata saldamente alla cultura ebraica. clarinettista e indaffarato agitatore di tutta una serie di formazioni e gruppi che a quella tradizione fanno palese riferimento, il nostro ha da poco dato alle stampe per l’etichetta Golden Horn Records il suo terzo lavoro a proprio nome dopo il debutto Bessarabian Hop del 2008 ed il successivo Infection del 2009.

Storm Game (Golden Horn Records, 2012) è il nuovo lavoro del collettivo classico del clarinettista; classico nella consueta formazione che prevede clarinetto, violino, accordeon, piano, basso e tsimbl (leggi cimbalom) ossia quegli strumenti (fatta eccezione per il piano) capaci di essere trasportati dentro una valigia, sotto l’ascella e rapidi a spostarsi con i loro padroni, e classico perché la lettura che Winograd dà in questo disco della cultura klezmer coniuga l’afflato cameristico della tradizione europea.
vecchio e nuovo mondo si fondono costantemente a principiare da quella Introduction che apre il disco dove i canti (registrati) di un’antica sinagoga fanno da sottofondo al debutto del clarinetto che si arrampica in una struggente melodia; per tutto il disco lo spirito e l’afflato moderno (e cameristico, ribadisco) ripercorrono la tradizione chassidica degli ebrei ashkenazici ridisegnandola con brevi pennellate classiche e qualche vago sentore di improvvisazione jazzistica, c’è spazio per un paio di brani cantati (Who e Specter) dalla voce di Judith Berkson. a completare il gruppo troviamo Deborah Strauss al violino, Patrick Farrell accordeon, Joshua Horowitz tsimbl (cimbalom), Anat Fort al piano e Benjy Fox-Rosen al basso.
immaginare un viaggio (voluto o meno) o le musiche per un matrimonio non sarà difficile, si può commemorare un defunto o festeggiare un Mitzvah: qualsivoglia rito culturale necessita una musica idonea. eccone un esempio aggiornato all’orologio del mondo che segna l’anno 2013. il viaggio di queste musiche non è evidentemente ancora finito, cifra necessaria e indispensabile pena l’estinzione: questa stazione è particolarmente agiata e raffinata, ma anche di queste buone sorti sono fatti i viaggi.
buon ascolto

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