Chico Buarque
Na Carriera: Ao Vivo

chi ha il buoncuore e la pazienza di seguire da qualche tempo queste lande conosce la sindrome brasiliana che mi affligge e che periodicamente procura febbri ed eccitamenti in concomitanza con l’avvistamento di dischi o di buone novelle di alcuni dei miei eroi.
Chico Buarque e Caetano Veloso hanno ingaggiato da tempo una competizione (del quale sono felicemente ignari) che si svolge fra le nostre mura domestiche (di alice e me) e che, di volta in volta, avvantaggia l’uno o l’altro a seconda dell’ingigantirsi delle nostre rispettive passioni. tutto ciò da quel post dell’ottobre 2007 che fu assai più galeotto di quanto potessi immaginare.
ad oggi Chico Buarque è decisamente avanti in questa sciocca ed inutile competizione: l’ho già scritto, ma aver dato ad una sua canzone lo stesso nome di quello da noi (precedentemente) scelto per la piccola Nina non può che arrecargli quel vantaggio che si merita. in più, il nostro carioca, ottemperando alla consuetudine tutta brasiliana di far seguire un tour ed una registrazione live ad ogni disco ufficiale, si procura ulteriore terreno di vantaggio. è proprio di questi giorni infatti l’uscita di questo doppio cd (con dvd annesso) per la Biscoito Fino di Maria Bethania (sorella di cotanto fratello).

Chico Buarque Na Carriera Ao Vivo (Biscoito Fino, 2012) è dunque il frutto di questa saggia consuetudine. 30 canzoni per mettere a proprio agio cuore, membra e spirito; un samba colto da camera, in punta di dita, con una voce che si assottiglia e si affina di dolcezza, un set acustico elegante e confortevole. 45 anni di canzoni, di stile e di poesia (e di  letteratura): credo sia giusto celebrarli. non credo di dover aggiungere molto altro: chi conosce Chico Buarque non necessita delle mie parole per convincersi di alcunché, chi avesse la fortuna di non conoscerlo (invidio l’emozione di una scoperta) può entrare nella sua carriera dalla porta che preferisce, quest’ultima come qualsiasi altra: la signorilità di Chico Buarque metterebbe chiunque a proprio agio.
dovrei quindi a questo punto annotare un piccolo ulteriore vantaggio al carioca, ma Caetano Veloso ha da poco (7 agosto) compiuto i suoi primi 70 anni e sembrerebbe maleducato non tributargli i doverosi auguri; a farlo egregiamente ci hanno pensato un manipolo di fan (uno dei tanti manipoli di fan) che autorizzati dalla Universal hanno preso in mano 16 delle sue canzoni per restituirne una personale versione.

A Tribute To Caetano Veloso (Universal, 2012) schiera così i nomi che leggete qui sopra, e non è poco, anche se Devendra Banhart pare il più devoto. divertente, piacevole, curioso: i fan gradiranno.
vale quindi la pena di assegnare un punto anche al bahiano e stabilire una parità che non fa altro che rafforzare la mia tesi che Caetano e Chico siano da almeno 40 anni juntos come lo furono in quel disco che invase la mia giovinezza per non andarsene mai più.
buon ascolto e feliz aniversário a Caetano!

Pubblicato in 2012, Nina | 3 commenti

Josephine Foster
Blood Rushing

mi accingevo a scrivere di ben altro, ma in buon anticipo sulla vendemmia settembrina ecco giungere la mia cara Josephine Foster (amabilmente Giuseppina) e il suo nuovo disco atteso/inatteso dopo la lunga permanenza spagnola; accantono dunque altri discorsi e mi tuffo sorpreso nell’ascolto di questa nuova epica da aggiungere alla carriera della diafana Giuseppina.

Blood Rushing (Fire Records, 2012) segna innanzitutto il ritorno nei nativi states dopo 7 anni di assenza dalle registrazioni nel suo paese. il Colorado è il luogo prescelto. il marito sodale Victor Herrero è con lei in trasferta ed assieme a loro un eterogeneo numero di musicisti: Andrija Tokic (Alabama Shakes) alla produzione, Paz Lenchantin (The Entrance Band), Heather Trost (A Hawk and a Hacksaw) e Ben Trimble (Fly Golden Eagle). l’indomita e blanda irrequietezza di Josephine Foster non è oramai più una novità: siamo, io credo, abbastanza abituati ai suoi cambi di direzione, alle sorprese, tanto che oramai piuttosto che rincorrere la sua carriera sarà bene stabilire una volta per tutte che la ragazza è dignitosamente libera di fare ciò che crede e che semmai, da qui in avanti, sono sono gli altri ad inseguirla, lei è già consapevole di essere dove vuol essere.
così il ritorno in America per lavare i panni nel Mississippi è forse dovuto alla voglia di ridefinire la propria nazionalità, e prima di tutto di asciugare (parole sue) il suo songwriting abbeverandolo ancora nell’immensa tradizione del proprio paese. States ma anche riflussi latini, andini, e sulla linea dell’orizzonte il pensiero ai nativi d’America.
la copertina (per quanto infantile) è stata dipinta dalla stessa Foster e appare ai miei occhi come una fantasmagoria della bandiera nazionale, dove le stelle si asciugano e campeggiano nel blu ed il rosso assomiglia tanto a cascate (Waterfall) di sangue del quale qualcuno si dev’essere macchiato.

10 canzoni fragili, piccole. pensate alla luce delle stelle e per queste fradice di una solarità nuova, asciugate (questo voleva) alla luce di un folk rock di purissimo impianto americano. violini, cori, flauti, una dosata elettricità vestono di illogica allegria (op.cit.) queste ballate nude. la title track odora già di piccolo capolavoro contagioso: è lì che pulsa il sangue, fra il vino e la carne quando è più forte la voglia di uscire a rimirar le stelle. qualche lullaby, occhieggiamenti al blues, una sfuriata nervo/punk come l’avrebbe potuta interpretare il capitano cuore di bue (Geyser), tanta epica folclorica che vede oramai in Giuseppina la più autorevole musa e lo spirito dylaniano dei primi a ’70 a benedire questo come back home.
sorpreso e toccato cara Giuseppina, mi hai sorpreso e toccato ancora. chino il capo e ringrazio prima di rialzare il naso alle stelle. il sangue pulsa e il vino scorre.
buon ascolto

Pubblicato in 2012 | 3 commenti

Janka Nabay & The Bubu Gang
En Yay Sah

sopra un fittizio taccuino mentale avevo da tempo annotato il nome Ahmed Janka Nabay attendendo un seguito al troppo esiguo Ep del 2010 uscito per l’americana True Panther; il titolo stesso del disco incoronava il nostro ad assoluto sovrano della musica Bubu originaria della Sierra Leone. Bubu King (True Panther, 2010) raccoglieva solamente quattro pezzi ipnotici, appiccicosi e africanamente contagiosi ed in più una copertina indimenticabile che mi ricordava, per svagata similitudine, un’analogo primo piano di una Billie Holiday con tanto di fiore dietro all’orecchio.

cos’era mai questa Bubu music capace di creare immediato contagio? e soprattutto quale moderna versione ne stava interpretando Ahmed Janka Nabay? la scoperta fu che in realtà questo disco proveniva dal continente nordamericano dove il nostro si era dovuto rifugiare a causa della cruda guerra civile in corso nel proprio paese e che la lingua krio la faceva da padrone. ritmo forsennato sopra i 120 bpm, gangli nervosi rimessi in moto per contagio, danza inevitabilmente indotta e quell’aria salubremente malsana e sotterranea che tanto piace a chi scrive. il video di Eh Congo valga assai di più di ogni mia parola.

a questo punto attendere un seguito era quanto meno doveroso: e la perseveranza di Ahmed Janka Nabay ha fatto il resto. dunque New York è il luogo dove negli ultimi due anni debbono essere successe un poco di cose: intanto l’elisione del nome musulmano a quanto pare in qualche modo ingombrante (da qui in avanti solo Janka Nabay) e l’incontro con un manipolo di musicisti dell’hype underground della grande mela. tutti rigorosamente bianchi ed increduli di ritrovarsi un cuore pulsante africano in terra americana. l’Africa, si sa, continua a chiamare forte e ad attrarre anche giovinastri pallidi in certa di sublime freschezza e, a loro, non deve esser parso vero ritrovarsi Janka Nabay nel circuito dei locali underground. l’altra cosa accaduta in questo tempo è che quel volpone di David Byrne non si è certo fatto scappare questa leccornia ed ecco dunque giungere l’agognato seguito per l’etichetta Luaka Bop.

Janka Nabay & The Bubu Gang En Yay Sah (Luaka Bop, 2012) ha dunque i crismi giusti per raggiungere un pubblico assai più vasto di quanto avesse potuto fare dall’agognata Sierra Leone. è lo stesso Janka Nabay a raccontare che dopo la naturale infatuazione adolescenziale per il reggae (Marley, eccolo che torna) è stato quasi naturale ritornare alla musica propria della cultura del suo villaggio e del popolo Temne, modernizzandola, accelerandone i ritmi, ed aggiungendovi quella doverosa elettricità figlia dei nostri tempi. le cassette di Janka Nabay erano il companatico di qualsiasi abitante della Sierra Leone (sarebbe bello ascoltarne qualcuna ndr) e, purtroppo, lo furono anche delle milizie ribelli che spargevano sangue al suono di quella bubu music. emigrare fu necessario e salvifico.

questo nuovo lavoro ha quell’appeal elektro pop che spero tanto possa piacere a tribù di giovinastri in cerca di un po’ d’Africa in giardino (op.cit.): i battiti restano alti, i controcanti femminili (call and response) garantiti e tastiere e chitarre febbrili accompagnano tutto il disco. Janka Nabay pare soddisfatto benchè leggermente ingolfato in un tappeto sonoro che difficilmente avrebbe immaginato dal suo villaggio di Masimo. l’effetto stordende d’inaudito colpirà chi è a digiuno di suoni del genere e questa si potrebbe rivelare l’asso nella manica infilato da David Byrne come viatico per il mercato internazionale.

di certo il plauso va a Janka Nabay fermamente convinto che la Bubu music sia la salvezza per chiunque ne venga contagiato, e capace di traghettare una musica antica di cinque secoli verso i prossimi cinque. un tour è in partenza, stare a vedere e ad ascoltare.
And Bubu music is fun, once you try it, you never leave it!

Pubblicato in 2012 | 2 commenti

El Gusto
Un Film de Safinez Bousbia

all’inizio di quest’anno dirottai sul lato malandrino di questo blog un disco giuntomi inatteso e carico di profumi nordafricani; qualche click in rete mi permise di scoprire quali altre meraviglie celava la musica di questa orchestra algerina. puntualmente l’attento TrickyPau mi fece capire che pure lui era giunto laddove anch’io avevo scoperto l’esistenza di un film documentario che raccontava questa storia dolce amara che ha la musica chaabi nell’anima, la guerra d’indipendenza algerina nel dolore e la forza di riabbracciarsi all’orizzonte.
ma proviamo a procedere con ordine; nel settembre 2003 Safinez Bousbia, una giovane studentessa irlandese di origini algerine, intraprende un viaggio ad Algeri per incontrare alcuni parenti e per tentare di tessere alcune trame interiori verso le proprie origini sconosciute. nei vicoli della casbah di Algeri si innamora di uno specchio incorniciato artigianalmente ed entrando nella bottega di Mohamed el-Ferkioui scopre invece una di quelle storie che cambieranno la sua vita e quella delle persone ritratte in una vecchia foto del conservatorio di Algeri. è proprio El Hadj M’Hamed El Anka (considerato il leggendario fondatore della musica chaabi algerina) il maestro ritratto nella foto mentre dirige un nutrito numero di musicisti. quando la ragazza chiede a Mohamed el-Ferkioui dove siano ora i musicisti dell’orchestra intuisce dal sospiro malinconico e dalla risposta evasiva che dietro questa vicenda si spalanca una storia di gioia e separazione in cui il tempo e la storia non hanno meno responsabilità delle vicende di una nazione.

El Gusto (2011) è il tenace frutto della caparbietà di questa ragazza che ha impiegato più di sei anni della sua vita per ricercare, incontrare e riunire le trame sbrecciate di questa storia. la storia di uomini, musicisti, musulmani ed ebrei che vivevano come fratelli nel bel mezzo dei vicoli odorosi della casbah di Algeri e che hanno saputo sognare e suonare una musica che non smette di profumare i nostri padiglioni auricolari. molti di loro non ci sono più, altri sono malandati dalla vita e dall’età, alcuni sono dovuti partire perchè la propria religione non era più ben voluta dopo la guerra civile e l’indipendenza: ecco allora Parigi o Marsiglia ad accogliere questi pied-noirs.
il film documentario racconta questo disperato tentativo di rimettere insieme quest’orchestra superando oggi ciò che il tempo ha voluto dividere. Safinez Bousbia ci ha rimesso in salute e denaro, ma alla fine è riuscita a riannodare dei fili che gli occhi acquosi dei protagonisti non riuscivano più ad infilare nell’ago della propria esistenza.

non è bene che io sveli il lieto fine di questa storia ma piuttosto che mi soffermi sull’incanto di una musica che nacque nel ventre umido di una città mediterranea, mescolando la tradizione classica araba con gli effluvi andalusi speziati di flamenco e di musica di popolo. musica e parole, canzoni di popolo graffiate sull’oud e sulla chitarra, baciate nervosamente dai violini appoggiati sulle cosce, canzoni che profumano di thé, caffè, rose e hashish.

i primi dieci minuti del film spero ispirino il desiderio di vederne oltre. io ho atteso qualche mese, ma attraverso peripezie e triangolazioni arabo-marocchine, sono venuto in possesso del film. il francese masticato dagli algerini non è poi così ostico da comprendere e, ancor più delle loro parole, parlano i loro occhi e le loro rughe. alla fine l’emozione annoda pure le budella dello spettatore (le mie di sicuro) consolate però da una musica immaginifica, onirica e dal profumo ottundente.
buon ascolto e buona visione.

Pubblicato in 2011, 2012, Kino | 2 commenti

Marley
A Film by Kevin Macdonald

proverò a non superare le 5 righe di questo post con vicende autobiografiche di poco interesse per non tediare nessuno. fortunamente ho già scritto assai tempo addietro e laggiù rimando i pochi interessati. il fatto resta comunque questo: quando Bob Marley entra nella vita in età preadolescenziale (10 anni o giù di lì) difficilmente se ne andrà per il tempo che resta da trascorrere! ed infatti lì è rimasto! (fine: in cinque righe)
il breve preambolo solo per annunciare a qualche fan distratto (ma non solo a loro) che è da poco uscito un film documentario che ha la capacità e la sapiente maestrìa registica di raccontare definitivamente la vicenda umana di una delle più importanti icone musicali (e non solo) del secolo scorso.

Kevin Macdonald con il benestare della famiglia Marley, con la produzione associata di Chris Blackwell è riuscito a realizzare la più accorata testimonianza della vicenda umana di un profeta del nostro tempo. Marley cerca infatti di esplorare l’imprendibile anima di un uomo vissuto solamente 36 anni ma che è riuscito a raggiungere tempi e luoghi distanti dalla sua vita terrena, idee divinate con la benedizione del Rastafarianesimo che appunto lo rendono profeta ancor prima che musicista.

l’uomo assai di più della sua musica, attraverso le testimonianze della famiglia, degli amici, dei parenti, dei colleghi e delle sue stesse parole. la vicenda (per chi se ne fosse già interessato) è assai nota, ma il giusto tempo e la distanza restituiscono una figura gracile con una forza folle e disarmante, e gettano umana luce sulle parabole di un visionario.
credo possa bastare quel poco di passione per apprezzare immagini e filmati inediti, scorci di vita vissuta, parole, aneddoti e memorie.

vedere Marley intento nel football vale il prezzo del biglietto e non credo di dover convincere nessuno del valore (o meno) di questo documentario. solo alcune avvertenze: il film è in lingua inglese ma di facile comprensione e, qualche volta, si viene aiutati dai sottotitoli inglesi per sopperire al jamaicano masticato e strascicato da qualcuno o impastato nella stessa voce di Marley; la Babylon tante volte additata dal nostro non poteva mettere in piedi una operazione come questa senza aggiungere una serie di gadget commerciabili.

ecco allora il soundtrack originale edito dalla Island (chi altrimenti?) che contiene alcuni inediti fra i quali spicca una Jammin’ dal vivo al One Love Peace Concert in cui Marley chiama inaspettatamente sul palco i due leader jamaicani e fa stringere loro le mani sopra la sua testa zeppa di dread improvvisando una preghiera come Cristo fra i due ladroni.
non credo di dover aggiungere altro. buon ascolto e buona visione.
Jah Rules!

Pubblicato in 2012, Kino | 1 commento

Thomas Belhom Rocéphine

in una serata autunnale di qualche anno addietro mi arrampicai fino a Milano per godere della presenza fisica (e della voce) di Stuart A. Staples in concerto con i vari progetti a suo nome (extra Tindersticks per intendersi); alcuni membri dei Tindersticks erano comunque presenti sul palco a dar manforte all’istrione involontario dietro al microfono centrale. tra loro, dietro piatti, casse e rullante la presenza essenziale e discreta di Thomas Belhom giunse a colpire la mia piacevolezza e la mia curiosità. non ci misi molto a scoprire e raggiungere il disco No Border (Ici d’Ailleurs, 2006) e a farlo girare per qualche tempo fra l’amplificatore, le casse e le mie orecchie.

in quel tempo (2006/2007) l’alt-country americano e l’avant folk monopolizzavano mercato ed orecchie degli astanti: il disco non sfuggiva a queste logiche seppur inserendo quel tocco francese (Belhom di lì proviene, non l’avevo detto) proprio del nostro compositore acerbo. ballate leggiadre e sghembe punteggiate da un campionario di strumenti maneggiati da Belhom: sosteneva il disco la presenza della voce di Staples in un brano (South Over The Seven Hills) e facevano capolino qua e la le prime avvisaglie di una timida sperimentazione armonica e compositiva.

ho atteso per lungo tempo il seguito a quel disco ignaro del fatto che un seguito vi era in realtà già stato. Cheval Oblique (Apparent Extent, 2007) ammetto mi sia sfuggito allora e di averlo recuperato solo ora: provo a giustificarmi rileggendo le recensioni di allora che non furono propriamente entusistiche; il disco era volutamente inclassificabile, sperimentale, suonato per lo più in solitudine e in progressivo allontanamento da quella forma canzone del precedente lavoro. ascoltato oggi risulta invece in leggero anticipo più che sul suo tempo, sulle attenzioni e sulle aspettative dell’hype di allora. qualche field recording, lunghe digressioni armoniche, poche parole e molte idee gettate dentro il calderone del disco: con il senno di poi persino meglio di No Border.

ma questo post voleva in realtà festeggiare il ritorno di Thomas Belhom dopo 5 anni di assenza dalle scene; riapprodando sulla consona etichetta francese è da poco uscito Rocéphine (Ici d’Ailleurs, 2012). è la stessa label a esplicare la ragione di un titolo e di una assenza prolungata: Rocéphine non è il nome di una eroina della letturatura francese dell’ottocento ma bensì il ben più ordinario nome di un comune antibiotico che pare sia stato salvifico per la salute del nostro.

una serie di video come questo (evidentemente girati in proprio) paiono ritornare alla gioia delle minuzie quotidiane, l’aria che si respira nel disco è assai più primaverile dei precedenti lavori, l’etichetta francese vorrebbe paragonare la genesi di questo disco a quella di Rock Bottom, ma per quanto la stima di Belhom per Robert Wyatt sia ponderabile, manterrei separati i due dischi e le due convalescenze.

piuttosto mi pare più giusto denotare una piacevole sintesi raggiunta fra i due lavori precedenti che porta Belhom in una direzione più personale ed autentica, magari verso quella ipotetica triade di connazionali a cui si potrebbe far convogliare questo tipo di composizioni stranianti ed oniriche (penso a René Aubry, a Pascal Comelade o al Yann Tiersen di qualche tempo addietro). il rischio di diventare ancor più sfuggenti vale la pena di essere corso per raggiungere la qualità di un disco come questo. alla critica che (inspiegabilmente) snobba da tempo Thomas Belhom lascerei volentieri l’incapacità di sfuggire a schemi e mode.

mi pare doveroso segnalare il ritorno alla voce di Stuart A. Staples (A Meaning Shovelfull of Promises) e il cameo iridescente di Lisa Doby che interpreta una meraviglia di canzone dal titolo Excursion. il disco mi appare maturo e splendente, compiuto, adulto e incamminato per quel tanto verso nuove prospettive che ci attendono nei tempi a venire. insomma da aggiungere ad un lista cospicua e lussureggiante che ci sta regalando questo 2012 di grasse vacche.
p.s. per completezza d’informazione è bene dire che il debutto discografico di Belhom avvenne nel 2003 sempre per Ici d’Ailleurs con Remedios (David Grubbs fra gli ospiti), ma il disco non è di semplice reperibilità e non avendolo ascoltato mi pare d’uopo non azzardare nulla. magari se ne riparlerà e se qualcuno lo volesse renderlo disponibile è assai ben accetto.

Pubblicato in 2012 | 6 commenti

Malawi Mouse Boys He Is #1

mi rendo perfettamente conto che fare l’etnomusicologo seduto sul sofà in soggiorno nasconde una contraddizione in termini, eppure, a volte, la medesima sensazione che più coraggiosi ricercatori debbono aver provato di fronte a certe scoperte invade pure il mio piccolo spazio casalingo e fa vibrare il cuore di quel fanciullino che vi abita. dalla mia finestra non si vede il Malawi e difficilmente saprei indicare la giusta direzione al viandante smarrito; ancora più improbabile che io possa farvi visita nei giorni che mi restano da campare (mai dire mai, comunque), ma debbo confessare che l’impalpabile sensazione di esserci stato anche solo per un breve istante l’ho provata scoprendo un disco giunto improvviso da uno spiffero della finestra affacciata sul mondo glocale.

scoprire poi che ai bordi delle strade che attraversano da nord a sud il Malawi stazionano ragazzi che vendono particolari snack agli automobilisti di passaggio meriterebbe un bel post sulla rubrica gastronautica: ma prima bisognerebbe assaggiare! piccoli topolini catturati ed arrostiti come kebab in miniatura pare siano una delizia tutta locale per cui vale la pena di frenare, arrestare il viaggio e godersi la prelibatezza. ma non è dell’analisi organolettica del piatto tipico che si vuole disquisire qui, piuttosto dell’attività dopolavoristica di 8 di questi venditori ambulanti che finita la loro giornata arrangiata imbracciano strumenti e percussioni rudimentali per disporsi in cerchio a cantare le proprie canzoni.
Malawi Mouse Boys è il plausibile e logico nome che si sono scelti o che ha scelto per loro l’etnomusicologo e produttore Ian Brennan (Tinariwen suggerisce qualcosa?) a cui dobbiamo l’epifania di questa scoperta. è lui stesso a raccontare di come una volta ritornato negli States con le registrazioni effettuate sul campo intendesse aggiungere un tocco “occidentale” a quelle canzoni che gli erano parse incantevoli ma rudimentali nel loro luogo d’origine. il riascolto di questa semplicità primordiale invece pare abbia preso il sopravvento ed abbia convinto il produttore a trasferire intonse queste quattordici delizie e a consegnarle a noi seduti sui nostri sofà.

Malawi Mouse Boys He Is #1 (Independent Records, 2012) racchiude una leggerezza di cui Italo Calvino sarebbe andato fiero, una selvaggia e primordiale bellezza che avrebbe fatto la gioia di Alan Lomax ed una stordente bellezza che avrebbe allargato il sorriso di Claude Lévi-Strauss. questi 8 ragazzi guidati dalla voce benedetta di Nelson (il vocalist più riconoscibile) utilizzano la loro lingua chichewa per intonare il loro gospel rurale verso la divinità che hanno probabilmente imparato ad amare in qualche missione cristiana. la maggior parte dei brani tessono le lodi del Signore (credo sia lui il numero 1 a cui fa riferimento il titolo dell’album) e paiono riprendere la tradizione delle township sudafricane mischiandola con spruzzi di calypso, reggae e qualche tradizione afroamericana che ha preso la via del ritorno verso la madre Africa. voci di bambini intorno, galli che cantano, strumenti scordati ed orfani di tutte le corde necessarie, percussioni recuperate chissà dove formano la delizia sulla quale il call and response dei Malawi Mouse Boys risuona allegro e contagioso: ascoltare Ndinasangalala (I Was Happy) per credere!

Pubblicato in 2012 | 13 commenti

Kottarashky & The Rain Dogs Demoni

colgo l’occasione di una recente uscita discografica per riallacciare il discorso con un lavoro risalente a tre anni addietro (e di questi tempi pare un secolo ma non lo è): medesimo l’autore, medesima l’etichetta e per certi versi medesima pure l’idea primigenia. Partenza: direzione Bulgaria. è lì che risiede Nikola Gruev meglio noto artisticamente con il nome di Kottarashky: appassionato dj, produttore e giramonopole smanettanti nonché collezionista di registrazioni viniliche di carattere antico ed etnomusicologico provenienti dalla sua nazione. e furono proprio queste ultime a rappresentare la peculiarità del suo debutto per la tedesca Asphalt Tango Records da sempre attenta a tutto ciò che accade sulla sponda orientale del Danubio.

Opa Hey! (Asphalt Tango, 2009) è una squisita delizia elettrobalcanica costruita a tavolino assemblando le voci di antichi crooner bulgari con i loop narcotici di fanfare e ballate balcaniche. uno di quei dischi ipnotici da ascoltare a ripetizione senza soluzione di continuità: è garantita la sensazione di viaggio, lo stordimento apparentemente alcoolico e persino una blanda sensazione di sfuggire al tempo indeterminato di questo lavoro.
il disco non sfuggì ai più attenti e pare che a Sofia l’operazione di Kottarashky sia divenuta persino di moda creando emuli e un rinnovamento culturale e cosciente; naturalmente assai richiesta la presenza live del nostro Nikola Gruev che si presentava nei locali armato di laptop e poco altro. ora non so sino a che punto questa povertà di mezzi lo abbia convinto a cambiare un poco le cose, fatto sta che da quel 2009 ad oggi Kottarashky a ben pensato di assemblare una band per accompagnare dal vivo (e per davvero) i suoi lacerti vocali rubacchiati da preziosi 78 giri recuperati nell’amata terra bulgara.

ed è così che si è giunti a Demoni, titolo dell’ultimo lavoro sempre per Asphalt Tango (2012) a nome di Kottarashky & The Rain Dogs (e questo nome non mi è nuovo!). Aleksandar Dobrev al clarinetto, Hristo Hadzhiganchev chitarra e sintetizzatore, Yordan Geshakov al basso e Atanas Popov alla batteria fungono da supporto sonoro (in carne, elettricità, corde, pelli ed ossa) alle voci ripescate da Kottaraashky. il lavoro svolto perde un poco di quella freschezza del debutto a causa di un’idea musicale completamente al servizio di questi vocalist fantasmi (solo in un paio di brani compare Tui Mamaki alla voce a tentare di sostenere l’operazione): il disco è gradevole e scivola amabilmente fra un proto dub balcanico e ritmi più latini che ottomani. quel nome Rain Dogs tradisce alcune ascendenze e inclinazioni e pare un poco strano pensare a musicisti balcanici che si rifanno a musicisti americani (Marc Ribot per non fare nomi) che hanno immaginato un suono balcanico pensandolo dall’altra parte dell’atlantico: un bel corto circuito virtuoso.
credo che traspaia dalle parole fin qui scritte che preferisco il debutto a quest’ultima prova ma non vorrei gettare dalla torre nessuno dei due lavori, salverei piuttosto energie e tempo per tentare di raggiungere prima o poi Sofia antica meta sognata che mi ritrovo a surrogare con l’ascolto di questi dischi.

Pubblicato in 2012 | 2 commenti

Kelan Phil Cohran & The Hypnotic Brass Ensemble
Kelan Phil Cohran & The Hypnotic Brass Ensemble

come si evince da alcuni libri di sacra fantasmagoria geografica i due altipiani di Addis Abeba e del Chiapas si fronteggiano da tempo immemorabile incuranti delle nostre nozioni errate e topograficamente farlocche. la fertile vallata che unisce le due alture la si può dominare con la sguardo da ciascuna di esse: a secondo del punto di vista (che è medesimo e speculare) non sarà difficile riconoscere una folta giungla discoscesa erosa dall’espansione delle palafitte di metallo della periferia di Lagos e, più in basso, quelle stesse palafitte abbeverarsi nella verde vallata del fiume Drina. in questo spigolo di universo trascurato colpevolmente dalle sacre scritture sopravvive una cultura che ha nel suono e nella sua testimonianza la ragione stessa del suo propagarsi: e proprio dalla Bibbia sembrerebbe scaturire la parabola di un monaco musulmano cinese (Kelan significa questo) e dei suoi otto figli iniziati all’arte dei fiati e degli ottoni. a questa famiglia si deve la rappresentazione più sanguigna e scintillante delle tradizioni sonore di questa vallata.

Phil Cohran (85 primavere appena compiute) sta entrando in quella fase dell’esistenza di un uomo in cui l’odore di santità e la mitologia non paiono inappropriate; come se non bastasse la sua carriera fulgida di trasversale bellezza universale ecco giungere la sua numerosa progenie a supportare il peso e l’onore della sua testimonianza. otto dei suoi ventitre (23, proprio 23) figli formano da qualche tempo la Hypnotic Brass Ensemble assieme ad un percussionista spurio (non figlio di Cohran) dividendosi trombe, tromboni, susafono ed eufonio: la loro musica ispirata alla tradizione afroamericana delle marching brass band sconfina da qualche tempo nel funk e nell’hip-hop.

se chiedete a ciascuno di loro chi sia stato il loro primo maestro otterrete la medesima risposta: loro padre. e quando giunge quel tempo in cui i figli trovavano la riconciliazione spirituale e culturale con i padri e questo il tempo, in quel luogo fantasmagorico e in questa vicenda protobiblica, in cui può nascere un disco come questo.

Kelan Phil Cohran & The Hypnotic Brass Ensemble (Honest Jon’s, 2012) è il frutto di questa summa di musica mesopotamica e leggendaria. l’incedere ipnotico degli ottoni conduce indifferentemente verso i quattro punti cardinali e appare davvero difficile raccapezzarsi ed affermare se si tratti dei prodromi dell’afrobeat, di una fanfara zingara o di un rituale azteco. e forse sono proprio queste etichette che vanno strette ad una musica imprendibile proprio perché difficilmente riconducibile alle nostre orecchie ignare dei rituali di quella vallata fantasmagorica. odore di biblica santità, di celebrazioni pagane e di innocui sabbah festanti: ritmi di danze antiche sospinte dai tromboni carnali che sorreggono le trame dei fiati. Phil Cohran, da padre comprensivo, mette da parte la sua arpa e gli ammenicoli mistici per osservare fiero la sua prole spingere la sua musica ben oltre i confini della sua familiare vallata.
pura e incantevole meraviglia.

Pubblicato in 2012 | 12 commenti

Yusef Lateef
Roots Run Deep

Yusef Lateef (classe 1920) è uno di quei patrimoni dell’umanità che andrebbero difesi e preservati dagli attacchi del tempo e dell’oblio; così come si fa con gli alberi secolari. ed è proprio il titolo del suo ultimo lavoro a suggerire questo paragone quanto mai appropriato. Roots Run Deep (RogueArt, 2012) giunge inatteso a rimembrarci quanta profonda e saggia bellezza abbia ancora da sussurrare questo musicista fondamentale della grande epopea afroamericana del jazz. a concepire questo splendido disco ci hanno pensato Nicolas HumbertMarc Parisotto carpendo e montando alcune meditazioni solitarie per voce e strumenti di Yusef Lateef: il pianoforte, il flauto ed il tenore accompagnano la voce pacata di Lateef catturata recitare vecchie narrazioni risalenti al 1976 (dal libro Spheres – Stories by Yusef Lateef, Fana Publishing Company, Amherst, Massachusetts). questi soliloqui sono stati poi montati assieme ad alcune registrazioni effettuate durante la realizzazione del film Brother Yusef: A Chamber Film with Yusef Lateef del 2005.

il gospel, Lester Young, meditazioni sulla vita e sulla morte, un traditional come Motherless Child e alcuni assoli interiori compongono questo compendio tascabile di bellezza e poesia afroamericana. Yusef Lattef medita di libertà di fronte agli alberi: le radici scavano rapide in profondità, i rami si slanciano versono il cielo e le foglie cadono. un piccolo haiku islamico di vegetale saggezza.
un disco splendido e segreto da raccogliere e dimenticare fra le pagine di un libro come certe foglie raccolte per chissà quale motivo: ritrovarle sarà l’epifania privata che illuminerà la coscienza. chino il capo in segno di ringraziamento e applaudo muto e silenzioso le grandi fronde ombrose di Yusef Lateef.

Pubblicato in 2012 | 6 commenti