Mariem Hassan El Aaiun Egdat

non tutte le primavere arabe hanno sprigionato il loro profumo di democrazia e libertà, non tutte sono sbocciate, alcune soffocate e dimenticate nel sangue, altre soverchiate dall’indifferenza malgrado i quasi 40 anni di lotta e dichiarazioni di indipendenza. la questione del Sahara Occidentale e del popolo sahrawi rappresentato dal Fronte Polisario attende dal 1976 che giunga finalmente il vento di primavera che spazzi via le violenze e le pretese del Marocco.

a gridarlo ancora più forte giunge oggi la voce più autorevole della musica sahrawi con il suo nuovo disco. Mariem Hassan costretta all’esilio spagnolo non smette di incarnare il cuore e lo spirito del proprio popolo additando al regno marocchino ed al mondo intero l’incendio che sta divampando nella capitale del Sahara Occidentale. El Aaiun Egdat (Nubenegra, 2012) significa proprio questo: El Ayun è in fiamme e vibra urgente così come tanti anni addietro Londra chiamava da un copertina dei Clash.

la voce ieratica di Mariem Hassan ammonisce dell’urgenza della rivolta, le chitarre spigolose tessono le trame, influssi melodici delle sponde del mare sabbioso rimbalzano su queste 14 canzoni infondendo inattese aperture al continente, un blues, qualche nenia, una ballata e quell’irresistibile gorgheggio battagliero delle donne sahrawi. un disco che basterebbe della sua bellezza, ma al quale l’ascoltatore occidentale potrebbe (e dovrebbe) aggiungere quel senso di consapevolezza e di fraternità che contraddistingue ogni lotta di liberazione.

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Sven Kacirek Scarlet Pitch Dreams

credo sia giusto porre una doverosa attenzione al nuovo lavoro di Sven Kacirek che da seguito all’acclamato (e non solo su queste sponde) The Kenya Sessions del 2011 uscito, come quest’ultimo, per la tedesca Pingipung. doverosa è quell’attesa dell’ennesima epifania che si manifestò all’ascolto del lavoro precedente condita con quella necessaria curiosità che spinge sempre un poco oltre.

saltando a piedi pari una brutta copertina che da sola si commenta mi tuffo negli ascolti ripetuti che già nella consequenzialità dei titoli dei brani pare voler lanciare il suo primo messaggio: This Album Is Not / About You And Me / It Is Not About Love / Cars & Nightingales / Or Other Stirring Or Boring Tales / Scarlet Pitch Dreams / Embraces Eleven Ideas / Turned Into What You Listen To / Right Now / Possibly You Find Your Own / Narratives Inside The Pieces.
e se debbo abbandonarmi alla mia narrativa mi vengono spontanee alcune considerazioni: un bel plauso al coraggio di aver tirato dritto per la propria strada abbandonando (giustamente) un progetto kenyano da considerarsi compiuto e terminato e tenendosi stretta quella multistrumentalità artigianale fatta di percussioni e clusters melodici che è in fondo la cifra propria del nostro ragazzone tedesco. secondariamente è inevitabile sentirsi orfani delle voci e delle sabbie africane che andavano a screziare e a grippare gli ingranaggi ritmici assemblati da Kacirek; ma come si diceva prima, quel disco keniano resta perfetto nella sua irripetibilità.

ciò che resta qui è quella sapiente stratificazione di ritmi e percussività varia che tesse una trama densa e suadente. nutro qualche dubbio sulla collaborazione con la vocalist Jana Plewa (che poco aggiunge a quei pochi brani in cui presenzia) e segnalo invece la presenza dei due bassisti Johannes Huth e John Eckhardt. c’è spazio anche per un brano dal vivo (Right Now) di cui non afferro appieno l’inerenza.

alla fine dell’ennesimo ascolto mi chiedo quanto questo nuovo lavoro sia frutto della pressione di un’etichetta per dar seguito ad un relativo successo di critica e se in realtà non si tratti per lo più di una tavolozza di appunti che Kacirek sta accumulando nell’attesa della prossima illuminazione. c’è altresì da chiedersi come avremmo accolto questo disco se non vi fosse lo scomodo termine di paragone del precedente, ma la consequenzialità del tempo e le contestualizzazione delle musiche in esso sono severi giudici delle cose.
era doveroso ascoltarlo attentamente e credo di averlo fatto, resta il plauso al coraggio delle proprie idee e un buon disco nell’attesa del prossimo. a presto.

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paniyolo hi to te ma

conclamata la primavera e archiviate sciarpe e lane, ora non resta che abitare il giardino sul retro della casa ed attendere che la vite si arrampichi sul pergolato per una meritata ombra enologica. questi movimenti impercettibili hanno in realtà un loro suono difficilmente captabile, una melodia nascosta che necessita di fini e secolari cultori per essere resa udibile.

Muneki Takasaka, che preferisce il nomignolo panyolo, conosce perfettamente il suono di cui vado immaginando; lo coltiva e lo innaffia assieme ad una tradizione botanica intrinseca al suo paese dal sole sempre levante. con una esile chitarrina e fragili e muti silenzi prova ad acquarellare questi attimi di niente nella verzura quieta. per farlo flirta mielosamente con la melodia saltando da una bossa tascabile ad accordi mansueti per far ronfare i gatti: minìmalia intimista da bowindow.

giunge proprio in questi giorni (con puntualità stagionale) il suo secondo lavoro hi to te ma per la nipponica Schole. una quasi perfetta solitudine meditabonda incrinata solo dalla marimba di Izumi Misawa e da flebili tocchi di piano di Suguru Oba. origami su nylon di chitarra per trastullare il meriggio.

buon pomeriggio. e buon primo maggio.

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Sun Araw & M. Geddes Gengras Meet The Congos
Icon Give Thank

credo che ad aiutare la realizzazione di certi sogni inconfessabili abbia contribuito assai la rete, in concomitanza con una globalizzazione (culturale, per una volta) spinta agli estremi. è così che in questo 2012 non è inimmaginabile pensare la contiguità di una favela con uno squat londinese, la periferia di Dakar con un centro culturale tedesco: e insieme a queste vicinanze, con la rete a rendere la comunicazione immediata e sincretica, la nascita di contatti, comunicazioni, collaborazioni.
solamente così un sogno come quello di vedere Camerone Stallones (al secolo Sun Araw) raggiungere Portmore, Jamaica del sud dove ha sede il compound dei redivivi The Congos, per collaborare con loro poteva concretizzarsi. a benedire questa operazione l’etichetta RVNG Intl. con il suo progetto Frkwys: una specie di storia della musica fantasmagorica ambientata nel paesi dei balocchi dove, come in un sogno, fare incontrare artisti distanti nel tempo e nello spazio per creare quella che la stessa etichetta definisce future future music.

il numero 9 della serie Frkwys porta così il titolo Sun Araw & M. Geddes Gengras Meet The Congos  Ikon Give Thank ed esce in versione lussureggiante accompagnata da un dvd dal titolo Icon Eye girato dai registi Tony LoweSam Fleischner attorno a questo incontro e per le strade di Portmore. Sun Araw, assieme al fido compare di merende californiane M. Geddes Gengras, se ne parte da casa con alcune registrazioni di pellegrinaggi psicotici per chitarra elettrica da sottoporre al quartetto rastafariano che lo attende in Jamaica. una decina di giorni di tempo per trovare la comunione di spirito idonea per registrare 7 tracce benedette da grassi calumet di pace e da sorrisi sornioni fra i baffoni dello Stallones ed i bianchi dreads dei Congos.


le divagazioni psicotiche e reiterate a cui Sun Araw ci ha abituato (e deliziato) incontrano così un dub spappolato ed indolente deliziato dalle voci straordinarie dei componenti dei The Congos: “Congo Ashanti” Roy Johnson tenorile (e signorile), Cedric “Bongo” Myton ed il suo falsetto che è divenuto la cifra perfetta di questa storia , Watty Burnett con il suo baritono leggendario, e Kenroy “Tallash” Fyffe a fare da collante resinoso (ed odoroso) ai tre compari. la cultura rastafariana esaltata nuovamente in un delirio di delay, riverberi, sovrapposizioni e rigurgiti onirici. una giungla lisergica ed appiccicosa in cui si sprofonda con il sorriso ebete sulle labbra, una musica inaudita (future future music assai probabilmente) ed inattesa.

il tempo, come si dice qui sopra, è inafferrabile, così come lo è questo disco sgusciante, insidioso e benignamente infingardo. melassa che si appiccica ai padiglioni auricolari e scende mielosa in profondità. una delle più belle sorprese speditaci dai nostri parenti d’oltreoceano: il cugino americano sballato va ad incontrare gli zìi jamaicani e spedisce la più inattesa cartolina dal futuro lisergico posteriore. Jah Rules!

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Caetano Veloso and David Byrne Live at Carnegie Hall

credo di dover esser debitore a questo blog di un post da scrivere a proposito di Caetano Veloso e David Byrne catturati dal vivo alla Carnegie Hall; i motivi sarebbero molteplici, ma ne basti uno per tutti: ne scrissi in proposito qualche mese addietro parlando del film Coração Vagabundo che racchiudeva in sé parte di quel 2004 in cui Caetano raggiunse New York per alcune date in cui fu accompagnato (ed affiancato) sul palco dall’amico (di reciproca stima) David Byrne.
breve inciso: l’industria discografica annaspa confusa. non solo si vede pubblicare i dischi con larghe settimane d’anticipo sulle date previste, ma, da ora, si rende prevedibile e carente di fantasia nell’editare materiale già presente in rete pur di affidarsi alle ultime galline dalle uova d’ora che ancora possono consegnare qualche spicciolo prima dell’imminente cambio di scena che le travolgerà. tempi duri pure per loro. fine dell’inciso.

Caetano Veloso and David Byrne Live at Carnegie Hall (Nonesuch, 2012) è il fedele resoconto del meglio di due serate in cui i due musicisti si sono succeduti (e poi sovrapposti) con set acustici brillanti e lucenti. Caetano sciorinò i suoi classici disadorni e splendidamente nudi, Byrne fece lo stesso cavalcando alcune sue memorabili composizioni in punta di microfono e chitarra. quando la natura di certi brani è baciata sin dalla nascita da bellezza e misura è bastante ricondursi all’essenza della canzone senza abbandonarsi ai fronzoli o ad inutili arrangiamenti. e sapientemente così fu.
Desde Que o Samba é Samba, Sampa, Coração Vagabundo stanno a The Revolution, Life During Wartime, Road to Nowhere così come questi due gemelli di due americhe differenti sta al recondito mistero sul perché non abbiano mai realizzato un “vero” disco assieme. e chissà che non succeda: magari ripartendo proprio dall’esilarante duetto di (Nothing but) Flowers affiatati come una coppia da cabaret.
dunque poco importa che questi fiori siano stati donati 8 anni addietro; ancora splendono e profumano come appena colti, malgrado lo squallido opportunismo dell’establishment discografico.
tanto dovevo a questo blog.
buon ascolto.

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Georgia Anne Muldrow Seeds

l’anno domini 2012 continua a rifiorire di bellezze e di sorprese e, almeno da queste parti, non ci si stanca di certo; au contraire ci si rallegra satolli allargando sorrisi ebeti di soddisfazione e godimento. era nell’aria l’imminente lavoro di Georgia Anne Muldrow annunciato dal singolo Seeds per la SomeOthaShip Connect; l’Ep portava in calce la firma produttiva di Madlib e, sebbene molti rumors accreditassero al dj californiano l’intera produzione dell’intero lavoro, si stentava a credere ai propri padiglioni auricolari. e invece, abbandonando ogni santommasa reticenza, posso qui ed ora (mentre colano beat e bellezza dai woofer) confermare che il nuovo disco di Georgia Anne Muldrow è prodotto interamente dal signor Otis Jackson Jr. incarnato nella preziosa persona di Madlib.

Seeds (SomeOthaShip Connect, 2012) sin dalla veste grafica della cover non nasconde l’ascendenza di sacrosanta blackness vintage a cui la vocalist e il dj sono da tempo devoti, ma se la loro unione fa la forza qui siamo di fronte ad assai di più di un semplice 1 +1, ci affacciamo di fronte ad un portento di funk soul spinto agli eccessi di densità e raffinatezza. entrambi sono coscienti di fare ciò che stanno facendo nell’anno 2012 eppure non rinunciano ad evocare una storia gloriosa di brothers & sisters che hanno inzuppato il passato di un groove e di una cultura per loro, e per ciascuno dotato di buon senso uditivo, irrinunciabile. il suono allora diventa saturo, grasso, grossolano (nella sua accezione migliore), i beat si fanno felpati e screziati di vinile, il basso incalza e avanza come una bestia nell’oscurità; su un tappeto di nobiltà afroamericana come quello srotolato da Madlib non poteva che ruggire la nuova principessa del vocalismo nero americano. Georgia Anne Muldrow veste qui gli abiti felini delle grandi regine che l’hanno preceduta e graffia e strappa come il funk impone, assai più ruvida sui riff, lasciando ai pochi episodi setosi di (nu)soul il ricordo della ragazzina prodigio giunta ad una sacrosanta maturità da signora.
play it loud si diceva un tempo, e assai prima Bogart consigliava play it again; ripetere le due operazioni più volte al giorno fino a completa soddisfazione!

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Chicago Underground Duo Age of Energy

e per nostra fortuna, oltre a John Zorn (qui sotto), neppure Rob Mazurek sembra aver voglia di porre freno alla sua inarrestabile, e meravigliosa, logorrea creativa; così, a contribuire a fare di questo primo trimestre del 2012 un periodo a dir poco fertile di musiche extraordinarie, ecco giungere la sesta prova del Chicago Underground Duo assieme al sodale Chad Taylor impegnato, da par suo, agli aspetti percussivi e ritmici del magma creativo del cornettista di Jersey City.
il duo approda ad una nuova etichetta con del materiale registrato per lo più live nel lungo tour del 2009 al quale sono stati aggiunti misurati e sapienti interventi successivi in studio. le note esplicative raccontano del difficile equilibrio fra esperienze controllate ed incontrollate, verrebbe da pensare alla vecchia e benedetta tensione fra improvvisazione e scrittura musicale. i due musicisti affiancano alla cornetta ed alla batteria una potente iniezione di elettronica (suonata da entrambi) oltre che la voce di Mazurek (sparuta ed ebbra di spazio) e la sapienza arcaica ed africana della mbira di Taylor.

Chicago Underground Duo Age of Energy (Northern Spy, 2012) si compone così di quattro composizioni (più una bonus track per l’edizione digitale) in piacevole tensione fra loro. due lunghe composizioni aprono il disco (Winds Sweeping Pines, It’s All Right) trascinando con l’elettronica (suonata da entrambi) verso spazi esterni a questa galassia: il primo si risolve in una mutazione verso gli strumenti organici a ritornare blandi verso queste lande, il secondo (assai più attonito e spaziale) vira verso una specie di canzone da astronauti intontiti. entrambi ipnotici e fintamente vintage. quando giunge Castle In Your Heart ci si inginocchia o ci si alza in piedi (a seconda delle proprie inclinazioni spirituali) di fronte alla bellezza di una canzone tradizionale dello Zimbawe in mano alla mbira e alla cornetta; una specie di ninna ninna per adulti per riconciliarsi con il mondo. catarsi e bellezza, nient’altro da chiedere. Age of Energy è sprezzante e arcigna, potenza ingabbiata nei ritmi sparigliati dalla batteria di Taylor, il brano avanza e non si risolve lasciando la tensione palpabile e con i cavi elettrici scoperti. Moon Debris (la traccia aggiunta) è un jazz elettronico lunare dove dietro la faccia buia selenica si potrebbe nascondere l’occhialone scuro del Davis di fine ’60. improvviso ipnotico per duo in orbita da troppo tempo.
non ricordo più a chi (e dove, e quando o se l’ho solo pensato) mi scappo di dire che è bello vivere lo stesso tempo di Rob Mazurek. lo ribadisco qui. buon ascolto.

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John Zorn The Gnostic Preludes

l’abolizione delle (mie) playlist annuali in concomitanza con la felice logorrea delle pubblicazioni di John Zorn ha rischiato per qualche ora di far passare in secondo piano un disco che invece si misurerà con i decenni e con gli anfratti di tutto il tempo a venire. è per questo che voglio annotare qui, sulla facciata principale del mio blog ciò che avevo relegato frettolosamente sul lato malandro di uabab; perché i dischi passano, i giorni sfuggono e le stagioni si rincorrono, ma dischi come questo giungono per restare, per segnare il tempo dei coevi e per donare la gioia che ogni buon auscultatore ricerca nella musica.
The Gnostic Preludes (Tzadik, 2012) rappresentano la terza incarnazione del progetto In Search of the Miraculous; dopo The Goddess (2010) e At the Gates of Paradise (2011) giungono ora questi preludi gnostici affidati a tre sublimi musicisti: Carol Emanuel all’arpa, Bill Frisell alla chitarra e Kenny Wollesen intento fra vibrafoni e campane; e mai come ora accostamento strumentale mi è parso così sublime.

le stringate (e banalmente ovvie) note rilasciate dall’etichetta Tzadik (e quindi da Zorn stesso) rimandano alla musica da camera, all’esperienza minimalista americana, a Debussy, ma come spesso accade quando si tenta di descrivere l’incanto della grande musica si scivola sugli involucri di banana di stereotipi ed etichette consunte e pressoché banali. Music of Splendor recita il sottotitolo apposto dal compositore e posso solo confermare che su quei territori ci troviamo a galleggiare eterei e immacolati. per sfuggire a classificazioni ed etichette ricorrerò ad una pratica che non amo ma che questo disco mi ha suscitato immantinente: la comparazione e la suggestione. come in un felice connubio enogastronomico questo disco mi ha fatto venir voglia di tornare ad assaggiare un altro gioiello della musica tutta: African Skies di Phil Cohran. hanno in comune la strafottenza verso il tempo, i generi e le classificazioni di ogni sorta: questa è la grande musica che si rimpicciolisce per incunearsi in ogni meandro della coscienza, bellezza irrefrenabile e meditazione che trascende. contundente come la meraviglia inattesa.
era giusto segnalarlo qui sulla facciata principale di questo blog per non dimenticarlo più. e se poi qualcuno vorrà annotarlo fra i dischi da ricordare per quest’anno è libero di farlo, io mi impegno a rifarlo per tutti gli altri anni venire.

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Clandestini per scelta di Corrado Antonini

la seppur minima esposizione mediatica di un blog come questo sta felicemente (per me, ben inteso) facendo fiorire incontri e assai piacevoli sorprese. frutto forse più della pervicacia e della passione (sempre mia) che non accenna a diminuire, piuttosto che del numero di persone che si sono affacciate da queste parti. cocciutaggine versus indici d’ascolto insomma. d’altra parte sono convinto che stia succedendo solamente ciò che fino a qualche anno addietro poteva accadere al di fuori della rete: incontrare nostri simili appassionati delle nostre medesime passioni, ammalati di musica, insaziabili auscultatori, curiosi incurabili e insanabili ricercatori di bellezze sonore. la rete ha accelerato esponenzialmente questi nostri incontri, parcellizzando il particolare, avvicinando ciò che lontano pareva e aprendo le nostre finestre (e i nostri archivi) sul balcone globale.
è dunque grazie a tutto questo che ho avuto il piacere di conoscere Corrado Antonini e la sua trasmissione radiofonica Clandestini per scelta in onda settimanalmente sulla Rete Due della Radio Svizzera Italiana (RSI Rete Due).
sul finire dell’ottobre scorso ricevetti una mail tanto piacevole quanto inattesa: Corrado Antonini si presentava e mi confidava alcune passioni musicali condivise e la stima verso ciò che vado facendo, oltre che presentarmi la sua trasmissione radiofonica. io non saprei dire quali siano esattamente le gratificazioni di un blogger, ma so che questa ci assomiglia molto. da allora, tempi e impegni permettendo, ci scambiamo informazioni, ascolti, suggerimenti e, naturalmente, non smetto di ascoltarlo (e di leggerlo) settimanalmente via podcast.
Clandestini per scelta va in onda ogni sabato alle ore 15,00 ed in replica la domenica alle 23,00. dopodiché è il podcast a salvare impossibilitati e sbadati. mezz’ora di musica scelta e condotta dalla voce sapiente e professionale di Corrado (mi ha confessato che la sua anzianità di servizio si avvicina al ventennio, congratulazioni) con l’introduzione, nel bel mezzo del programma, di un artista clandestino appunto. mentre scrivo sto ascoltando la trasmissione che introduce la settantaseiesima (76) clandestina, tante quante le puntate andate in onda da tre anni a questa parte (qui e qui). il clandestino non viene disvelato durante la trasmissione ma solamente dopo, nella pagina della trasmissione, attraverso la penna assai arguta di Corrado Antonini che da ottimo giornalista (mi verrebbe da dire di blogger) presenta ed introduce sapientemente l’artista in questione.
ora io vorrei fare alcuni complimenti a Corrado Antonini e, visto che mi trovo in acque territoriali fraterne, nessuno mi impedirà di farlo. innanzitutto per la sua professionalità e per la sua competenza come giornalista e come speaker (dj, oratore, conduttore insomma), poi per le sue scelte musicali che assai spesso condivido e che sovente sono lo spunto per i miei successivi ascolti e approfondimenti. ma il complimento che tengo per ultimo è quello relativo alla sua capacità di restare curioso e presente al tempo musicale che è cambiato assai da quello in cui lui e io siamo cresciuti (siamo entrambi entranti concretamente negli anta) e di aver compreso che questa è solamente l’ultima delle rivoluzioni musicali che si susseguiranno nel tempo a venire. lui lo ha capito appieno e le sue parole e la musica che ama sono lì a dimostrarlo: è bene restare clandestini, per scelta, per vocazione e anche per necessità.
buon ascolto.

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Musette Drape Me In Velvet

“Ma di Musette non si sa più nulla?”
la domanda, in famiglia, è circolata spesso negli ultimi 3 anni senza trovar risposta. più o meno da quando fece la sua improvvisa apparizione Datum suscitando innamoramenti ed instancabili ascolti. non voglio qui tediare chicchessia intorno allo scivoloso concetto di perfezione: ma a mio assai modesto parere quel Datum era, nella sua epifania, nel sua voluta vacua nostalgia, nella sua concisione e nella sua leggiadrìa un disco perfetto!

Musette (al secolo Joel Danell) l’aveva concepito in fragrante solitudine ed in evidente stato di grazia, immerso in un suo mondo dal quale era riuscito a comunicarne l’essenza sotto forma di note e soavi musiche. il guardaroba rubato da un secolo esatto prima, il cuore immerso nelle fragranze del romanticismo, la penna impressionista e gli occhi rapiti dalle pellicole francesi d’antan.
dopo un disco “perfetto” ci si potrebbe pure bloccare oppure è necessaria una rivoluzione per non cadere nell’ovvio della reiterazione. e Musette, bisogna dargliene atto, non è stato così sciocco da cadere nella trappola; ha impiegato questi tre anni a rovistare nella sua collezione di nastri d’epoca per far nascere la scintilla che ha generato il suo nuovo disco.

Drap Me In Velvet (Häpna, 2012) riparte proprio da dove Musette ci aveva lasciato, ovvero con quel Carefully Collected Cassette Tapes che altro non era che un cd-r uscito per l’etichetta Tona Serenad che raccoglieva le registrazioni casalinghe (su nastro) che avrebbero poi generato Datum. questa volta le cassette per il nuovo disco sono state trafugate dagli anni ’50 e ’60 scegliendole dalla collezione privata dello stesso Joel Danell; a questi nastri è stato riservato un trattamento sgarbato, stagliuzzando, sovraincidendo, stiracchiando e strappando per poi aggiungere elettricità e quel tocco onirico che ha trasformato questo modernariato auditivo in una collezione di strumentali provenienti da un luogo indefinibile del tempo (e pure dello spazio).
verrebbe voglia di inventarsi il termine post-exotica oppure di ripensare a tutte quelle melodie dimenticate che facevano da sfondo a misconosciute trasmissioni televisive dei primordi, una space age da teatrino di provincia, il luna park apparso in sogno e tutto il glimmer e le paillettes che hanno adornato sipari e vestiti di soubrette. il tocco dolce e baciato dall’afflato melodico non ha però lasciato Musette che, malgrado la voglia di ripartire altrove, tradisce la sua vera natura negli ultimi tre brani del disco (Horse Thoughts, How To Behave In Elevators, Fine) e ci riconduce laddove ci aveva incantato al primo incontro.
sarà per quel suo abbigliamento stravagante o per quell’aria divertita e paciosa che giungono un istante prima della sua musica, ma si può star certi che una volta incontrato Musette difficilmente ci si dimenticherà di lui. ed è proprio per questo che è bello ritrovarlo: bentornato Musette.

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