Karen Dalton 1966

prendo a prestito, citando a memoria, una frase che qualcuno (non ricordo più chi, me ne scuso) scrisse a proposito di Nick Drake“dovreste conoscere Nick Drake, potrebbe cambiare la vostra vita, di certo ha cambiato la mia.” la prendo a prestito per mutuarla e sostituire il nome di Drake con quello di Karen Dalton, perché il consiglio e l’effetto avuto sulla mia vita è pressoché il medesimo. e così il consiglio, per chi non è già giunto laddove si vuole arrivare, è quello di fare la conoscenza con questa folk singer nascosta nelle troppe pieghe della storia della musica americana; celata per sua stessa caparbia volontà, per idiozia del music business e per una fragilità umana che assai male si conciliava con il clamore di una carriera da far esplodere nei ’60 americani.

l’occasione per ritornare ad ascoltare (e a raccontare) Karen Dalton giunge dall’etichetta Delmore Recordings che ha pubblicato nel gennaio di quest’anno una raccolta di registrazioni private carpite da Carl Baron nel 1966 in Colorado, dove Karen Dalton ed il marito Richard Tucker si erano ritirati in un cottage e lì provavano per un futuro concerto alcuni brani. nasce così 1966 (Delmore Recordings, 2012), un documento in bassissima fedeltà “rubato” al tempo e restituito 45 anni dopo a noi ignari di cotanta bellezza. le elucubrazioni su questo tipo di operazioni potrebbero prendere molto tempo e non sono certo di volerlo occupare qui: del resto la stessa carriera (documentata) di Karen Dalton è iniziata con un sotterfugio ad opera di Nik Venet il quale, stanco della timidezza restìa della Dalton ad incidere in uno studio, la invitò ad una session assieme a Fred Neil (proprio lui) per raccogliere una sua versione di un brano di Neil. la seduta di registrazione si protrasse oltremodo e riuscì a venirne fuori un disco intero. eravamo verso la metà dei ’60 ma il disco vide la luce solamente nel 1969 per la Koch Records.

It’s So Hard to Tell Who’s Going to Love You the Best diventa così, paradossalmente, il disco tecnicamente meglio inciso da Karen Dalton. vi trovano spazio alcuni blues (Leadbelly, Floyd), brani di Fred Neil e dell’altro mentore Tim Hardin. ascoltato oggi (come allora) il folking di Karen Dalton mette i brividi per una indolenza dolorosa ed una voce che si appiccica addosso come una sindrome. ma allora, forse fuori tempo massimo, non scompiglio il Greenwich Village come avrebbe dovuto, e potuto, fare qualche anno prima. fu così che allora qualcuno pensò (sic!) che fosse buona cosa cambiare leggermente rotta ed introdurre strumentazioni più appetibili per i ’70 incombenti.

In My Own Time (1971) diventa così uno strano prototipo di folk soul in cui la voce ancor più dolente di Karen Dalton è circondata da un’elettricità inopportuna e baldanzosa. un tentativo di addolcire ed ammansire uno spleen esistenziale nutrito di alcool e droghe a melodie e swing che stringevano l’occhiolino al patrimonio afroamericano del soul. qualcosa stride, la direzione non è quella giusta e qui finisce la carriera ufficiale di Karen Dalton.

sarà la Delmore Recordings che successivamente alla scomparsa dell’artista (1993) si prenderà l’onore di pubblicare una serie di registrazioni casalinghe, demo e live carpite in quegli anni ’60 in cui l’attività sotterranea di Karen Dalton fluiva lontano dai riflettori e dalle masse. Green Rocky Road (The Loop Tapes: Pine Street Recordings) vede la luce nel 2008.

nel 2007, sempre Delmore, Cotton Eyed Joe è doppio cd contente altre registrazioni casalinghe ed un live del 1962 più un dvd con alcuni filmati alquanto emozionanti.
e quando si pensava finito il saccheggio dello scrigno privato di questa vita dolente ecco giungere questo 1966 che, credo, metterà definitivamente fine alla riscoperta di questo tesoro della musica tutta.
prima di chiudere mi premeva aggiungere due cose: così come ogni cantautore (ogni american folk singer) non può non fare i conti con un certo Bob Dylan, lo stesso, malgrado la diametrale celebrità di Karen Dalton, dovrebbe valere per le colleghe di sesso femminile. e quante, troppe, di fronte a questo paragone scompaiono in un abisso di oblio.
la seconda cosa, che ho cercato di tacere fino a qui, è la straordinaria consonanza (esistenziale e) timbrica della voce di Karen Dalton con quella di Billie Holiday: è un paragone splendido ma di poca importanza in fondo, se non fosse che in questo 1966 è contenuta una versione di God Bless The Child già cavallo di battaglia di Lady Day. e quello che vorrebbe essere un confronto diviene una moltiplicazione esponenziale di bellezza al limite della commozione.
dovreste davvero conoscere Karen Dalton!

Pubblicato in 2012 | 6 commenti

Mike Cooper Distant Songs Of Madmen

il 2012 è iniziato fra singulti oscurantisti e grandi dischi, e se proprio potessi scegliere quale di questi due fenomeni eliminare istantaneamente non credo ci possa essere dubbio al riguardo della mia preferenza. ci possiamo tenere i grandi dischi, certo, ma una malsana ombra lugubre continua ad imperversare minacciosa su di loro. sono questi i tempi (spaventosi) della saggezza, del risparmio e della correttezza. e poi buone maniere, economie da soccorrere e morigeratezza di costumi. è in questi momenti che servono uomini pazzi, imprevedibili e squisitamente geniali per sparigliare e spettinare gli sceriffi e gettare il panico nelle aule dell’Inquisizione.
per fortuna l’uomo che fa per noi non ci ha lasciati soli: Mike Cooper ha deciso di iniziare a festeggiare l’anno che porterà il suo settantesimo compleanno con un nuovo disco. un disco dal vivo, bello, necessario e gratuito.

Distant Songs Of Madmen (Room40, 2012) è la registrazione di un set acustico palermitano del giugno scorso. Mike con la sua celebre chitarra National Steel, la sua voce, qualche aggeggio elettronico ed un pugno di canzoni in mente e nel cuore. canzoni distanti di uomini pazzi, appunto; e fra queste alcune delle sue, non meno distante e pazzo di loro. Mike Cooper invita i suoi uditori ad accomodarsi fra Tim Buckley, Van Dyke Parks e Woody Guthrie lasciando la libertà di scegliere il quarto per il tresette. senza dimenticare Sam Shepard (dal quale è mutuato lo splendido titolo), William S. Burroughs e Thomas Pynchon: uomini folli e necessari.
il folk stralunato e sciamanico di Mike Cooper riempie questi indispensabili 38 minuti di bellezza, ma la grande lezione del nostro uomo giunge allorché impone all’etichetta Room40 la gratuità del disco e chiosa la sua presentazione con queste parole:
“I find most ‘folk’ singers, folk clubs and festivals are incredibly conservative these days and my wish is that a niche might be found in there for some forward musical movement and thinking to bring itself into the 21st century and that this cd might be a small contribution toward that end.”
il disco è qui sotto o sul sito Room40 previa registrazione.
buon ascolto e buon compleanno Mike.

Pubblicato in 2012 | 1 commento

Erlan Dahlen Rolling Bomber

la Norvegia confina a sud con l’Africa bantù, ad est con il gamelan balinese e ad ovest con la siderurgìa algebrica. a nord solo mare, neve e ghiacci perenni: come qui fuori. gli uomini sono tutti fulvi e barbuti, le donne valchirie. il loro re è un percussionista falegname di nome Erlan Dahlen. non sono certo che lo svolgimento della prova di geografia mi darà la sufficienza ma di certo è ciò che si evince da questo disco appena giunto dalla fredda Hubro.
dopo anni di pelli e metalli al servizio dell’universo jazzistico e avant norvegese, il percussionista Erlan Dahlen affitta un capannone in disuso al centro di Oslo che ospitava una torrefazione di caffé (?!?) e si rinchiude lì fra il febbraio e l’aprile dell’anno scorso per registrare quello che sarà il suo debutto in solitaria. Rolling Bomber (Hubro, 2012) mutua il nome dalla batteria bellica che Dahlen ha acquistato da un collezionista. una Slingerland Rolling Bomber in legno di rosa e metalli fusi nelle acciaierie della seconda guerra mondiale: un’anima gentile e profumata dentro un obice esplosivo e fumante. Dahlen, da par suo, ha la frenesia schizoide dei percussionisti e la sensibilità di un polipo mitologico: costruisce strumenti e si barrica dentro la trincea roboante dei suoi ammenicoli. sega, cucchiaio e martello. bicchieri, gavette e lamellofoni. schiva la banalità della sovraincisione per rappresentarsi nudo con barba e borsalino sul palcoscenico delle sue musiche oscure trafitte da percussioni equatoriali e da rituali balinesi.

pare una musica industrial gentile per una siderurgia ecologista, con scenari lugubri che però non spaventano neppure i fanciulli: un giusto funerale, una scimmietta meccanica, la visione della Germania algida e marziale vista da lassù, l’assalto di una giunca nel mare delle Indie Orientali, Escher tradotto in geroglifico, la visione fricchettona dell’estate dell’amore norvegese (che ancora dura) e, per chiudere, la mitologia nordica che rappresenta una delle sue bestie, il Dragone. 7 brani in tutto, in giusta misura e a guisa di compostezza, senza esagerare, senza strafare: che bisogno c’è.

ecco il nostro dal vivo ad Oslo nel dicembre scorso. è con questo ritmo che attendiamo fiduciosi la prossima invasione barbarica che cali dal nord a liberarci dalle mollezze funeste del nostro basso impero.
Hu-huuu-hu hu hu!

Pubblicato in 2012 | 8 commenti

Leonard Cohen Old Ideas

mi rendo perfettamente conto che di questi tempi si dovrebbe parlare di cose assai serie come l’epurazione fascista dei siti di hosting dove noi ominidi ci stavamo divertendo a scambiare musica, o della codardìa di alcuni gestori di questi siti che per non finire sulla sedia elettrica hanno deciso di insaponarsi la corda da sé e saltare giù dalla botola.
ma è pur sempre la musica che mi interessa sopra tutto e quella difficilmente riusciranno a metterla a tacere, sia che che ci provino gli sceriffi yankee con le loro modalità d’esportazione della democrazia o sia che ci si applichino quei cacasotto (mi si perdoni il francesismo) pronti a lucrarci sopra e svelti come iene a fuggire al primo ruggito imperialista.
e allora mettiamo da parte queste questioni gravissime (la questione è grave ma non seria avrebbe chiosato Ennio Flaiano) e ritorniamo alla disarmante semplicità della musica e all’annuncio che il poeta e la sua golden voice sono sulla via del ritorno: Euterpe, musa della musica, sarà ancora corteggiata dal canadese errante.

Old Ideas è da ieri in streaming esclusivo sul sito del Guardian; attendendo un solerte postino che mi consegni la mia copia diligentemente ordinata mi trastullo e mi delizio con la voce e la poesia di Leonard Cohen. la musica non ha mai goduto di cotanta salute e una risata seppellirà tutto il resto. a presto!

I love to speak with Leonard
He’s a sportsman and a shepherd
He’s a lazy bastard
Living in a suit

p.s. aggiornamento del 26 gennaio.
nel bel mentre dell’attesa del solerte postino ecco che in ogni angolo della rete rimbalza la disponibilità digitale del disco di cui sopra. e quindi, per rimanere leggiadri, ecco la piuma meravigliosa del nostro poeta…

Leonard Cohen Old Ideas

Pubblicato in 2012 | 12 commenti

Markku Lepistö, David Munelly, Riccardo Tesi, Bruno Le Tron, Didier Laloy
Accordìon Samurai

chissà mai se possa essere immaginabile il ritrovamento di un Manuale di Etnomusicologia Fantastica alla stregua di quelli zoologici pensati e scritti dal mio illustrissimo cugino Jorge L. Borges, o semmai la discoperta di alcune registrazioni sul campo effettuate da Alan Lomax prive di indicazioni temporali e spaziali ma con la semplice notazione grafica Europe. tutto questo non è dato di sapere, ma si può star certi che semmai si giungesse a questa epifania il suono e le annotazioni condurrebbero senza esitazioni a questo disco.

prendi cinque virtuosi dell’accordéon provenienti da diverse parti del vecchio continente e lascia che la loro maestrìa e la loro cultura interagiscono con la dovuta calma passando per vari incontri ed esecuzioni live. con il dovuto tempo si otterrà al fine una seduta di registrazione (aprile 2011), coordinata da Frédérique Dawans dell’agenzia artistica belga Fragan, presso il Centre de Crèation des Nouvelles Musiques Traditionnelles et Musiques du Monde, a Correns nel sud della Francia. è così che i cinque guerrieri dell’accordéon Markku Lepistö (Finlandia), David Munelly (Irlanda), il nostro Riccardo Tesi, Bruno Le Tron (Francia), Didier Laloy (Belgio) hanno dato vita al disco Accordìon Samurai uscito per l’etichetta belga Homerecords. con ruoli paritetici e licenza condivisa di scrittura ne è scaturito un vero e proprio trattato di folklore fantastico della cara e vecchia (e bistrattata) Europa. assai difficile stabilire un luogo preciso del vecchio continente, ancor più arduo individuare quale celebrazione o rito umano possa essere accompagnato da queste musiche: è un po’ come se la storia si fosse messa di traverso e avesse sovvertito eventi, migrazioni, conquiste e calendari. ecco allora il popolo europeo di ceppo caucasico che celebra i riti di passaggio, il mutare delle stagioni, le bucoliche feste pagane, i balli, matrimoni, le nascite e gli addìi senza appartenere a nessun luogo ma solamente alle genti di queste terre.

disco da vertigine culturale, indomito e profondamente radicato nella cultura che crediamo nostra e riconosciamo come improvvise olfazioni d’infanzia. si viaggia in senso inverso attraverso tempi e luoghi e si giunge a bordo di questo folklore fantastico in uno spazio inconsueto eppur così familiare.
l’unica magia concreta è la capacità tecnica di questi cinque musicisti, straordinari a dosare e posare la loro arte per rendere così leggera la musica e lasciare spazio a questo sogno. che la festa abbia inizio allora.

Pubblicato in 2011 | 22 commenti

Jason Stein Quartet The Story This Time

così come ciascuno credo sia curioso di conoscere il segreto dei pluricentenari di Vilcabamba (Ecuador), allo stesso modo qualcuno dovrà prima o poi spiegare ove annidi la proficua connessione fra il jazz d’avanguardia ed il Genius loci della città di Chicago. e se in Ecuador è proprio il paradosso di una dieta a base di alcool, fumo e cibo “pesante” ha donare longevità (leggi pace+salute), è altrettanto vero che al jazz di Chicago sono altrettanti paradossi (per questa ambigua modernità) a donare bellezza e mistero: libertà, improvvisazione, radicalità e impegno sociale. citare l’AACM pare a questo punto doveroso (e forse è proprio lì che si dovrebbe indagare), senza dimenticare il post-rock dei ’90 fino a giungere al panorama attuale del primo decennio del secolo che vede Chicago splendere di luce propria e di un suono iridescente ed imprendibile; e dunque giungere a fare il nome di Rob Mazurek come sineddoche del musicista più celebre per tutta la scena di colleghi che rappresenta.


è proprio da questa scena e da una delle etichette più prestigiose in città che giunge l’ennesimo disco pronto a far sussultare ed applaudire gli insaziabili amanti del jazz, di Chicago e non. Jason Stein Quartet The Story This Time (Delmark, 2011) è il debutto a proprio nome del clarinettista basso dopo quattro dischi accasati fra Clean Feed, Leo Records e NotTwo, in solo, in trio e sotto lo pseudonimo di Locksmith Isidore. questa volta Jason Stein ci mette nome e faccia e si attornia di tre musicisti gravitanti proprio in quella scena chicagoana di cui sopra: Keefe Jackson (sax tenore e clarinetto contrabasso), Frank Rosaly (batteria) e Joshua Abrams (contrabasso). basterebbe la presenza di quest’ultimo musicista a far sobbalzare sulla sedia il sottoscritto che stravede per il bassista in questione; se a questo si aggiunge lo strumento del leader (il clarinetto basso che ogni appassionato di jazz associa inevitabilmente al marziano Eric Dolphy) ecco che si innesca il meccanismo compulsivo dell’acquisto a scatola chiusa. ma una volta aperta la scatola disvela assai di più di quanto ci si attendesse. quattro musicisti in stato di ottima salute nell’operosa perizia di rendere la loro maestria un appassionato tributo alla classicità del bop senza dimenticare la radicalità del free e la capacità improvvisativa.
andirivieni fra logiche bop e avant jazz senza soluzione di continuità, tributando l’onore a composizioni meno conosciute dei mostri sacri del genere (Lee Konitz, Lennie Tristano, Warne Marsh, Thelonious Monk) e producendosi in brani originali che non allentano la piacevole tensione emotiva del disco. Jason Stein si conferma uno dei massimi virtuosi del suo fascinoso e suadente strumento, Keefe Jackson puntuale e preciso sideman, Frank Rosaly fa risplendere pelli e metalli e Joshua Abrams è di una bravura contundente!

La Windy City è bellissima e suona che è una meraviglia!
Non torno a casa! Saluti da Chicago!

Pubblicato in 2011 | 3 commenti

2011

così come sospettavo mi ritrovo a non avere la voglia e il tempo di ripercorrere a ritroso l’anno appena finito, di raccogliere e selezionare questo piuttosto che quello, scartando l’altro e preferendo l’ulteriore. in parole povere non ci sarà una playlist; o meglio, la playlist c’è ed è stata compilata diligentemente per tutto il corso del 2011 mantenendo in piedi due blog (questo e il cugino malandrino uabab) e selezionando di volta in volta ciò che ascoltavo decidendo se scriverne un poco (su queste sponde) o se semplicemente condividerlo (su uabab) con chi gentilmente segue queste pagine.
a ben contarli potrebbe saltar fuori una playlist che raggiunge quasi i 500 titoli (e altri come al solito se ne aggiungerano in leggero ritardo), tanti sono stati i dischi che ho deciso di pubblicare sul blog. ne ho ascoltati anche di più ma molti non hanno ottenuto il mio benestare, per quel che vale. la categoria 2011 qui di fianco li evidenzierà immediatamente e allo stesso modo su uabab.
a dire il vero sono già con i piedi e con i pensieri in questo 2012, ai progetti e alle novità che mi frullano in testa, ai dischi che stanno arrivando alle troppe cose che mi piacerebbe fare; e se mi guardo indietro il 2011 è l’anno in cui è arrivata Nina e a confronto non c’è davvero musica più bella.
quindi niente playlist! potrei sottoscrivere per intero quella dell’amico TrickyPau con il quale condivido passioni e aspirazioni o quella di alcune riviste spulciate in rete o sfogliate dal vivo, ma se proprio dovessi ritrovarmi costretto a dire un nome solo questo sarebbe quello di Sven Kacirek.

Sven Kacirek The Kenya Sessions (Pingipung, 2011)

ne parlai qui a marzo e il mio contatore di iTunes è assai eloquente: mi sono pure accorto di averlo consigliato personalmente (ed istintivamente) ad un paio di amici che mi chiedevano cosa avrebbero dovuto ascoltare ad ogni costo. così fra i tanti ne eleggo uno a rappresentare tutti gli altri. e qui mi fermo: il 2012 è già qui ed è tempo di rimettersi in marcia. buone cose. a presto.

Pubblicato in 2011, Nina, Playlist, uabab | Lascia un commento

Shabazz Palace, Digable Planets e altre storie

l’anno volge al termine e sarebbe consuetudine stilare una playlist dei dischi che hanno lasciato un loro segno. mi lusinga il fatto che qualcuno privatamente me l’abbia richiesta ma debbo porgere momentanee scuse per mancanza effettiva di tempo; provo a rimandare un poco la scadenza. quello di cui posso esser certo è che in una plausibile playlist figurerebbe (figurerà?) Shabazz Palace con il suo Black Up uscito per la Sub Pop Records!

dire che attendevo questo disco da 17 anni sarebbe errato ma non falso, di certo conduce al più piacevole degli stordimenti. provo a riassumere: chiunque si ricordi dei Digable Planets non può non essere stato vittima del più evidente coito interrotto durato il breve spazio di due anni, fra la primavera del 1993 e il breve volgere dell’anno successivo. fu allora che il trio licenzio la più folgorante miscela di hip-hop alternativo, funk, soul e jazz con i due dischi Reachin’ (A New Refutation of Time and Space) (1993) e Blowout Comb (1994): dopodiché il silenzio, il nulla. campionatore spento e stereo off. una specie di scomparsa carsica, un addentrarsi nei sotterranei di produzioni e collaborazioni sempre meno evidenti fino allo sparimento. Ishmael “Butterfly” Butler, Mary Ann “Ladybug Mecca” Vieira e Craig “Doodlebug” Irving scomparsi, perduti.

e invece ecco risorgere Palaceer LazaroIshmael “Butterfly” Butler resuscita a nuova vita e si battezza con nome che non potrebbe essere più appropriato. Shabazz Palace la sua creatura che torna a rimestare in quella stagione di politica, panafricanismo e islam che irradiò di bellezza la comunità afroamericana nei ’70 (Shabazz wikipedia docet). il suo disco Black Up è di stridente bellezza, profondo e denso ed ha il pregio di portare ulteriormente oltre l’hip-hop (lui lo aveva già fatto): oltre un presente che rischia lo stantio, oltre il genere. condividendo in pieno le sue parole rimando ad una puntuale ed acuta recensione di Matteo Losi.

da tempo mi riproponevo invece di condividere le radici dei due dischi dei Digable Planets, di scavare in quella fertile terra in cui il trio aveva seminato le proprie rime facendole germogliare sopra i sample memorabili che costituivano la spina dorsale di quei due dischi. se comincio a citare Sonny Rollins, James Brown, i Last Poets, Art Blakey, Roy Ayers, Rahsaan Roland Kirk, Curtis Mayfield credo si incominci a comprendere di quale orto io stia parlando.

e quindi ricordando quei due dischi (e i suoi due dischi ombra di sample) e questo splendido Black Up che si chiude l’anno. per tutto il resto ci sarà tempo nel prossimo.
è tutto. buon anno che giunge, a presto.

Pubblicato in 2011, Playlist | 11 commenti

Caetano Veloso Coração Vagabundo, o filme

tutt’attorno vedo spasimo di doni, un dare e ricevere compulsivo e non mi sento di astenermi completamente da questo sentimento. anche perché la mia letterina a Papai Noel io l’avevo scritta 3 anni orsono ed il dono è giunto solo ora. per di più riciclato (ma son cose che capitano di questi tempi). ecco allora che sotto l’albero di manioca del blog impacchetto questo Coração Vagabundo, il film documentario in cui Caetano Veloso racconta un poco della suo tempo dietro l’occhio registico di Fernando Grostein Andrade.

l’istante carpito è racchiuso in una triangolazione spaziale fra San Paolo, New York e il Giappone. il tempo quello successivo al disco della consacrazione internazionale A Foreign Sound (2004) e nel bel mezzo della svolta elettrico/giovanile di un disco com  (2006). Caetano che raggiunge New York osannato come un conquistatore e incoronato in uno dei templi di quella città: la Carnegie Hall. le due serate dal vivo fanno da spina dorsale al film: la prima con il suo gruppo e la seconda raggiunto sul palco da un collega ammantato di stima (reciproca): David Byrne. Caetano solare, nudo, sincero, sorridente, scherzoso. Caetano meditabondo, polemico, pensieroso e spiritualmente presente.

se qualcuno avesse ancora qualche residuo dubbio sull’uomo (sull’artista non se ne posso più avere) può concedersi i 70 minuti del film per ottenere la conferma che ci troviamo di fronte ad uno dei più grandi artisti del nostro tempo. ma è un fan che parla e questo non depone a favore della mia opinione. comunque sia: il dono è in lingua originale ma vi sono sotto l’albero due file di sottotitoli (inglese e portoghese) ed in più la registrazione delle due serate alla Carniege Hall (solo e con David Byrne) carpite dalla radio americana. e tutto. buone cose e buona visione.

Pubblicato in 2008, 2011, Kino | 11 commenti

Todomodo Bimba col pugno chiuso

da molto tempo cerco l’abbrivo e le parole giuste per raccontare lo straordinario lavoro che stanno compiendo Claudio Di Mambro, Luca Mandrile e Umberto Migliaccio (d’ora in avanti, con una splendida parola sola, Todomodo). le cerco da quando l’amico Davide Reviati mi procurò clandestinamente una copia di La morte mi fa ridere. La vita no. un documentario appassionato e necessario su Piero Ciampi, di certo il più bel gesto d’amore compiuto dai tre registi (e dagli amici chiamati a raccontarlo) nei confronti del cantautore livornese. figura oscura, dolente e scomoda per la povera Italia (di allora come di oggi) incapace di comprenderne grandezza e statura.
dopo la visione di quel documentario non sono mancate le testimonianze e le conferme del fatto che mi fossi imbattuto in tre persone egregie (nell’accezione latina ex gregis: fuori dal gregge). Costantino Spineti non ha mai smesso di raccontarmi la sua meraviglia e il suo amore per la medesima scoperta che lui stesso fece per altre vie (le sue, certo, che a nessun altro si possono paragonare) e nel giugno scorso Maurizio Ribichini mi stordì di stupore raccontandomi l’ingarbugliata e sentimentale peripezia (un giorno meglio mi spiegherò) che lo portò ad incontrare i tre ragazzi di Todomodo.

ora si presenta l’occasione di sostenere e di perseguire quella lotta che è stata protagonista dell’ultimo documentario di Todomodo: Di lotta si vive. il ritratto di Giovanna Marturano, Tina Costa, Agostino Medelina e delle loro esistenze combattenti. da Maurizio Ribichini, che iniziò allora la collaborazione con Todomodo illustrando il manifesto del film, prendo a prestito le parole per raccontare questa nuova avventura che sta incominciando: “Dopo l’esperienza di DI LOTTA SI VIVE, abbiamo pensato che Giovanna Marturano, una delle nostre protagoniste, meritasse un lavoro a sé. La sua forza e la sua gioia di vivere, nonostante i 99 anni, hanno colpito noi, ma anche molti di voi, che hanno visto il documentario.

e di seguito, in concreto, l’opportunità di sostenere il progetto:
Vi scriviamo perché abbiamo deciso di produrre questo nuovo lavoro, dal titolo BIMBA COL PUGNO CHIUSO, in modo un po’ diverso dal solito. A partire da oggi fino al 31 gennaio 2012 sarà possibile prenotare una quota del documentario (del valore di 10€), con cui diventerete nostri co-produttori. Questo si tradurrà nella presenza del vostro nome nei titoli del documentario e in una copia del dvd che editeremo non appena il lavoro sarà finito (comunque non oltre maggio 2012). La prenotazione non prevede un versamento immediato. Solo se tutte le quote saranno vendute entro il 31 gennaio, allora procederemo a chiedervi il versamento tramite bonifico.

Per capire cosa abbiamo in mente e in quale progetto vi vogliamo coinvolgere andate su questa pagina: http://www.produzionidalbasso.com/pdb_801.html

Per seguire la lavorazione del documentario:
http://www.facebook.com/Todomodoproduzioni
http://todomodofilms.wordpress.com

Per info e contatti: 

to***********@gm***.com











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to***********@gm***.com











Se potete sosteneteci e fateci sostenere. Grazie.
Claudio, Luca, Umberto, Maurizio

ecco dove sta la meraviglia di certi incontri e la precisa sensazione che non ci si sta sbagliando: uno cerca l’occasione per ringraziare e trova invece l’opportunità di sostenere. sono dei vostri!

Pubblicato in 2011, 2012, Kino | 16 commenti