Jac Berrocal / David Fenech / Ghédalia Tazartès
Superdisque

il superlativo del titolo non è mio, pur condividendolo appieno; battesimo sinceramente immodesto e scomodo come questi tre musicisti lo sono per la musica contemporanea. un supergruppo per realizzare un superdisco: come nei sogni malsani degli avanguardisti più intransigenti. in realtà i tre mescolavano già da un paio d’anni i loro deliri sui palcoscenici d’europa frequentando festival e club abbarbicati al limite del continente. dopo alcuni video trapelati dal colabrodo della rete e qualche registrazione clandestina ecco dunque giungere il superdisco accasato, manco a dirlo, per la prestigiosa etichetta belga Sub Rosa.

che succede dunque quando le peregrinazioni immaginifiche di Jac Berrocal si incontrano con quelle di David Fenech passando per le corde vocali dell’illustre Ghédalia Tazartès? capita che si venga trasportati in un non-luogo indefinibile da meridiani e paralleli e pure da clessidre: assomiglia all’avamposto spinto ai confini delle nostre frontiere ignaro del fatto che non vi sia più nulla da difendere o da esplorare dopo che tutto è divenuto dopo, post. oltre i suoni delle avanguardie, oltre la forma canzone, oltre le tradizioni popolari e oltre il linguaggio e le sue forme.
Superdisque (Sub Rosa, 2011) arruola la tromba di Berrocal assieme alla chitarra di David Fenech a dividersi i turni di guardia con i deliri di Tazartès. loro tre a presidiare l’avamposto servendosi di ammenicoli e brandelli di memorie sonore, stralci di un tempo passato, ricordi. di notte, nel cabaret del refettorio i tre improvvisano ballate e canzoni mal digerite servendosi del generatore che sputa l’ultima corrente elettrica disponibile. bagatelle dopo il massacro, rigurgiti di blues, reticenze free si mescolano con incedere marziale a ricordi popolari, canti di pastori erranti, agli ultimi sussulti silicei di qualche congegno elettronico.

Ghédalia Tazartès mugugna la sua lingua ieratica e inesplicabile sopra tappeti di blando stordimento elettrico. lingua incongrua, spuria, che solo a tratti rammenta quel francese malsano biascicato nei sogni sudati al chinino nel deserto africano dei legionari. ma la sensazione di trovarsi esattamente da nessuna parte persiste: un piccolo aleph malato.
una piccola cosmogonia portatile di sciamanesimo da consultare ogniqualvolta assale la sensazione di smarrimento e di perdita, una mappa per conoscere le transumanze dei popoli ben prima che tutto venisse spazzato via inghiottito in un niente assordante.

si potrebbe definire disco dell’anno se solo si sapesse in che anno ci si trova. tempo indefinibile, imprendibile nello spazio circostante che si scruta dalla garitta.
Superdisque appunto.

Pubblicato in 2011 | 3 commenti

Benoît Delbecq & François Houle
Because She Hoped

l’autunno è giunto ben oltre la soglia dell’uscio ben prima che io me ne avvedessi e solo ora mi accorgo di non essermi munito dei dischi idonei per accoglierlo. intendo quelli freschi che sanno di funghi e foglie cadute, quei dischi che risuonano al tepore dei caloriferi, casalinghi e zuppi di lana e bevande fumanti come la penombra del mezzo pomeriggio.
da giorni ascolto questa coppia di musicisti senza essermi dato la premura di annotarlo qui: mea (autunnale) culpa. Benoît Delbecq e François Houle si guardano e ammiccano dietro i loro rispettivi strumenti: pianoforte e clarinetto; un duetto da camera (autunnale) pressoché classico. Because She Hoped è il loro nuovo disco in uscita per la canadese Songlines, terzo episodio dopo i precedenti Nancali (1997) e Dice Thrown (2002).

due curiosi, saggi e spregiudicati improvvisatori nell’esercizio delle loro funzioni. funzioni tiepide ed intime che ben si addicono al panorama di questo novembre: tenui e fascinose meditazioni su un tema di Duke Ellington (The Mistery Songs) e africani depistaggi per un brano di Steve Lacy (Clichés) sono le due colonne d’Ercole oltre le quali si spingono i due giovani musicisti per veleggiare nel mare delle loro composizioni che comprendono anche il riascolto di Nancali in versione live ed una duplice versione di un omaggio al grande (e aggiungerei dimenticato) Pee Wee Russell (Pour Pee Wee in studio e dal vivo).
jazz da camera si diceva, a cui però giungono effluvi e correnti lontane grazie alle preparazioni a cui Benoît Delbecq sottopone il suo pianoforte: non so di preciso quali siano le diavolerie ficcate fra corde e martelletti ma la sensazione di trovarsi ad occhi chiusi di fronte ad una kora o ad un’arpa africana è assai forte (Ando). François Houle, da par suo, ci soffia dentro quel tanto di classicità e maestria da far tornare alla mente il caro Jimmy Giuffre (sono un fan, mi si perdoni) e tanto basta per far splendere questo disco nel bel mezzo di questo autunno. improvvisazione, mistero e bellezza fanno il resto.
buon ascolto.

Pubblicato in 2011 | 3 commenti

Baby Dee Goes Down To Amsterdam

ed è così giunto anche il tempo della grande consacrazione di Baby Dee nell’olimpo delle altre musiche che continuano a sollazzare di ammantante catarsi tutti coloro che da tanto tempo si avvertono altri. altri da ciò che circonda, altri dai generi, altri dalle predilezioni sentimentali e sessuali e finalmente altri persino da se stessi.
e se vi è un tempio per questo tipo di incoronazioni si può star certi che questo sia il Bimhuis di Amsterdam, luogo incontrastato delle altre musiche: è lì che Baby Dee è stata catturata dal vivo due anni addietro (2009) per l’Holland Festival in collaborazione con la radio olandese. con lei sul palcoscenico il fido John Contreras al violoncello, Alex Neilsen alla batteria e Joe Carvell al basso ad accompagnare la splendida e sulfurea satanassa fra pianoforte e arpa.

Baby Dee Goes Down To Amsterdam (Tiny Angel, 2011) nasce così di fronte ad un pubblico attento e caloroso e ad una Baby Dee in forma smaliante. un recital per un canzoniere che finalmente ha assunto la caratura che compete ad una regina di quelle musiche altre di cui sopra. siparietti sconci inframezzano delizie seicentesche, ballate dolenti si alternano ad ebbre e sudicie canzoni da cabaret: la duplicità a cui ci ha abituato questa strega turchina.

il video sopra è assai più recente (28 ottobre 2011) a testimoniare, se ve ne fosse bisogno, l’insana bellezza a cui è giunta l’arte musicale di Baby Dee. e se è vero che il pop ed ogni altra fandonia commerciale necessita di incoronare le proprie eroine, ebbene è giunto il tempo noi altri altri di incensare la torbida delizia di questa sovrana.
Salve Regina, e che lo spettacolo vada ad incominciare…

Pubblicato in 2011 | 1 commento

Paolo Conte Gong-Oh Best Of

a dire il vero si dovrebbe essere contrari ai Best Of, per coerenza, per corretezza ed aggiungerei pure per completezza. in più, se la questione riguarda Paolo Conte insorge imminente una contraddizione in termini: difficile stabilire il meglio di (traducendo) qualcosa che meglio già lo è. meglio della stessa nazione che immeritevolmente si può vantare di un’artista tale, meglio di ogni suo collega in circolazione (e non sto parlando di avvocati) in quel paese, meglio di qualsiasi paroliere che si arrabatti su rime baciate e questioni profonde, e assai più affascinante (culturalmente e carnevalescamente) di ogni suo coetaneo che si vanti di avere qualcosa da dire (o da cantare).
ma i discografici debbono pure sbarcare il lunario approfittando del natale imminente e quindi è bene confezionare il fatidico Best Of indorando la pillola con l’inclusione di un inedito che produce istantaneo la salivazione dei fans vecchi e nuovi. così, mentro inghiotto saliva, mi immagino i cassetti odorosi di casa Conte straboccanti di fogli con righi e note scarabocchiate, parole a margine e bozzetti sognanti: quel tesoro di inediti e di brani “scartati” per i quali ogni buon ammiratore scodinzolerebbe rapito.

La musica è pagana è la perla inedita fra le restanti 18 scelte dallo stesso Conte per completare e far lussureggiare questo Gong-Oh The Best Of. ad essere sinceri c’è pure una nuova (?) versione di Via Con Me, ma, senza soffermarmi troppo, direi che di nuovo c’è davvero poco e che anche la straripante bellezza subisce i danni dell’usura e dello spreco.
La musica è pagana pare estrapolata (ed esclusa) da una delle sessioni dei suoi ultimi dischi: quell’elettronica moderata rimanda a Psiche o all’ultimo Nelson, ma poco importa da dove venga ed è forse un poco più importante dove porti. Conte che fa l’orango mugugnando un gu gu gu primitivo e quelle prime strofe che portano davvero altrove: il latte d’asina, una zia lontana, l’indigeno che pagaia e il fiore di zagara e infine la musica che torna nel tentativo vano di descriverla e di descriverne l’amore incommensurabile. l’ennesima grande canzone di Paolo Conte al quale oramai si può solo appuntare il difetto di aver smesso di raccontarci quelle “storie” che hanno costruito l’immaginario onirico e salgariano dei suoi adepti.

così, a proposito di storie, approfitto di questo post per tornare ad una (quasi) decina di anni addietro quando Paolo Conte fu ospite della trasmissione radiofonica (RadioDue) Alle 8 della sera. era il luglio del 2002 e a quel tempo era da poco uscito Razmataz (due anni prima); Paolo Conte si concede di raccontare un poco di più sulle sue canzoni, le storie nascoste fra le pieghe degli enigmi e le soluzioni musicali argutamente adottate. è un piacere privato ascoltare la favella edotta dell’avvocato raccontare misteri e aneddoti nascosti dietro il pentagramma: da questa chiacchierata si evince quel meglio di cui parlavo sopra. davvero non vedo molti altri in grado di nobilitare e glorificare così tanto l’arte dello scrivere ed interpretare canzoni.

e visto che sono in vena di post scriptum vorrei ricordare ai più sbadati che Paolo ha un fratello meraviglioso di nome Giorgio (Conte) che continua a fare lo stesso mestiere che iniziò a fare con il fratello e a farlo bene divertendosi e divertendo. il suo ultimo Come Quando Fuori Piove è una piccola delizia per appassionati cultori.
è tutto. mi fermo. buon ascolto.

Pubblicato in 2011, Radio | 8 commenti

Chris Watson El Tren Fantasma

si potrebbe partire dalla radio o dalla grande fascinazione per le registrazioni ambientali; o forse dall’idea di risonorizzare vecchie pellicole dell’epoca del muto o attenersi alle leggende che narrano di locomotive evanescenti che si materializzano sulle rotaie della rete ferroviaria del globo. ma forse può bastare citare il nome di Chris Watson ed ecco che magicamente tutte queste suggestioni si addensano in una sola e restituiscono il nuovo lavoro del più celebre recorder di ambienti e fenomeni naturali.
la prestigiosa BBC (parlo di radio) incarica Chris Watson di “trasmettere” a puntate il suo punto di vista sonoro sulla traversata pacifico/atlantico partendo da Los Mochis per raggiungere Veracruz. siamo in Messico e più precisamente sulle Ferrocarriles Nacionales de México (le patrie ferrovie messicane): il modo più popolare e novecentesco di effettuare la traversata e tagliare il paese da nord-ovest a sud-est passando fra deserti, foreste pluviali e grandi canyon. e naturalmente stazioni, volti e grandi rumorosi silenzi viaggianti.

El Tren Fantasma (Touch, 2011) è l’elaborazione sonora (o la sua condensazione se si vuole) di questo viaggio compiuto da Chris Watson. viene subito alla mente la celebre collana della Metamkine che portava l’evocativo battesimo di Cinéma pour l’oreille: ma qui la musica è doppiamente concreta, effettiva e palpabile fra sferragliare di rotaie e ipnosi da traversine. e se fosse davvero cinema potrebbe far tornare alla mente la pellicola muta del cinema messicano che portava il medesimo titolo (1927, youtube docet), ma forse Watson è abbastanza scaltro da saperci portare altrove pur lasciandoci intendere tutto ciò. l’incisione riporta esattamente ciò che ci si immagina (uditivamente) di incontrare in un tipo di viaggio così: annunci di stazione, imminenti partenze, sferragliamenti, stridori e silenzi di pensiline ombrose nell’ora della siesta. e poi il paesaggio fuori dal vetro, arido e desertico, ornitologico e pluviale, caciarone e festante nelle fermate intermedie. poche le manipolazioni successive di Watson e praticamente assenti le voci dei passeggeri. il film scorre sul finestrino e appoggiato all’orecchio sonnolento del viaggiatore: la fuori scorre il Messico, per chi non l’ha mai visto, per chi lo vuole rammentare e per chi (come me) vuole solo immaginarlo.
in carrozza allora, la proiezione sta per cominciare. buon viaggio e buona visione: la pellicola è rigorosamente in bianco e nero ed i sottotitoli sono opera di Chris Watson.

Pubblicato in 2011 | 3 commenti

The Tiger Lillies Woyzeck

e in effetti c’era da aspettarselo che quei satanassi dei Tiger Lillies si unissero alla lista di coloro che, in questi 175 anni trascorsi da quell’unica stesura incompleta, hanno voluto interpetare ed omaggiare l’opera di Georg Büchner. il Woyzeck resta uni di quei simulacri di cruda bellezza resi ancor più fascinosi e misterici dalla sua natura maledettamente umana, moderna e, particolare non trascurabile, dalla sua forma “aperta” data dall’incompiutezza.
soldati, omicidi, assassini e tradimenti costituiscono una pozzanghera di fango umano in cui i Tiger Lillies ci si sono tuffati con un carpiato avvitato e consapevole: le stesse storie che da anni rimbalzano nei loro drammi possono far risalire proprio a quel Woyzeck l’origine moderna di quel teatro tedesco a cui i tre musicisti continuano meravigliosamente a fare riferimento.

l’occasione si è presentata con l’allestimento teatrale andato in scena a Vienna dal 24 settembre al 15 ottobre scorsi. The Tiger Lillies in scena assieme ad attori e musicisti a sancire con 12 canzoni la tessitura del dramma di Georg Büchner. per nostra fortuna quelle dodici canzoni sono state estrapolate dallo spettacolo, e senza perdere un briciolo della loro bellezza sono andate a formare un disco struggente e bellissimo: The Tiger Lillies Woyzeck (homebase record, 2011).

un breve estratto dalla conferenza stampa di presentazione e assai più eloquente di tante mie parole. da annotare e annoverare fra la prestigiosa lista delle interpretazioni che il Woyzeck ha avuto. non posso essere certo del gradimento di Georg Büchner ma posso umanamente garantire per il mio.
che si apra il sipario. buon ascolto.

Pubblicato in 2011 | 2 commenti

Scanner + David Rothenberg
You Can’t Get There From Here

metti che un giorno si possano incontrare uno dei più visionari (e talentuosi) artisti elettronici di questo debutto di millennio ed un professore di filosofia e musica che ha già prodotto tangibili prove della sua illuminata e sanissima follia. metti poi che quest’ultimo citato illustre professore si chiami David Rothenberg e che abbia saggiamente deciso di non abbandonare il suo clarinetto, e che l’altro talentuoso girabottoni sia noto con il nome di Scanner (al secolo Robin Rimbaud). bene, ammesso tutto questo e, sempre ammesso che tutto questo sia tutto vero, c’è di che scattare sull’attenti e, in particolar modo lasciare che lo facciano le orecchie affamate (o assetate) di mirabilie e leccornie.
ebbene posso qui ed ora sinceramente affermare che questo incontro è avvenuto davvero malgrado lo spigolo di rete che frequento io non ne abbia vampeggiato clamore (come mai?); e lo posso ribadire con più solerte certezza ora che il disco ricomincia per l’ennesima volta in sottofondo (qui ed ora) a srotolare il suo catalogo di meraviglie.

Scanner + David Rothenberg You Can’t Get There From Here (Monotype, 2011) è uno di quei dischi che riconciliano l’ascoltatore insaziabile con la sua bramosia di bellezza e catarsi. a volerlo davvero raccontare un disco come questo si dovrebbe forse partire da quella prima impressione ricevuta all’ascolto ebete e stupefatto. un dentro ed un fuori; inizialmente senza comprendere bene da cosa. dentro e fuori, interno ed esterno. lentamente si è dipanata l’idea che il fuori fosse notturno, bagnato, urbano, con le luci che si riflettevano sul selciato e che il dentro (rispetto a quel fuori) potesse essere l’interiorità di una camera imbottita, sorda, quasi anecoica. dentro la camera David Rothenberg, lì fuori Scanner: ed il disco in bilico ad oscillare fra queste due postazioni.
dentro il buio della stanza alcune meditazioni per clarinetto solo (Black Betwixt Darkness, You Can’t Get There From Here, Compouding Daydream, Fabian Fox) vivono il rigurgito di una coscienza elettronica che giunge dal subconscio a screziare il silenzio retrostante, riaffiorano memorie e brandelli di echi esterni. lì fuori la notte traslucida percossa da un dub indolente senza la profondità dei bassi (Ready Ready, As Air Moves In, Where Do You Run To) ma con echi di blues e gospel strozzati nella notte. elettronica e clarinetto/clarinetto ed elettronica: il sottoscritto si ammansisce e si acciambella come un serpente addomesticato.

a volerlo davvero raccontare un disco come questo bisognerebbe tacere le tante suggestioni che affiorano ad ogni angolo di strada: evocazioni, riminescenze, ascendenze. non credo sia a queste che sia il caso di porre attenzione, piuttosto soppesare come questi suoni occupino il presente con il leggiadro peso di un futuribile involontario, di una modernità non voluta eppur vivida e, lo confesso, splendida.
e nel qual caso fossero già aperte le urne per i dischi dell’anno mi vesto ed esco dalla mia stanzetta anecoica per scivolare nottetempo verso il seggio elettorale per esprimere la mia sbalordita preferenza.

Pubblicato in 2011 | 4 commenti

Bill Frisell All We Are Saying…

c’era una volta la celebre diatriba fra Beatles e Stones: non ci ho mai creduto ed ho piuttosto sempre pensato che tutti e due fossero meglio che uno solo di loro. c’era poi chi i Beatles non li ha mai neppure mai voluti ascoltare da nessun altro che non fossero loro: io mi sono sempre divertito ad ascoltare ogni sorta di cover (e ve ne sono a bizzeffe) fosse anche il lattaio che fischiettava in bicicletta. qualcuno non avrebbe mai voluto che venisse profanata quell’aura privata ed assai intima che è costituita da una dozzina di dischi mandati a memoria ed ascoltati sino alla consunzione (dei dischi e della propria anima); come se qualcuno venisse a pretendere di raccontarci la nostra infanzia o il nostro primo amore con parole sue. a questi intrusi, forse, non aprirei la porta. ma se Bill Frisell, dall’alto della sua carriera, decide di raccontarmi il suo John Lennon imbracciando la chitarra e incappando nel più logico (e proprio per questo inatteso) dei tributi, io non posso che mettermi in ascolto.

Bill Frisell All We Are Saying… (Savoy, 2011) è esattamente ciò che sembra, un gesto d’amore e di rispetto, di passione e di bellezza. un grido educato di dolore per questi (quasi) 31 anni che abbiamo trascorso nell’assenza di una delle personalità più straordinarie e controverse della storia della musica. i classici beatlesiani e lennoniani reinterpretati da un quintetto jazz orientato verso un suono “americano” da un violino ed una lap steel a fare da compari a chitarra, basso e batteria (sin troppo quadrata e r’n’r). dire che disco ne sia venuto fuori non compete forse a me: mi sono divertito a condividere alcune mie preferite di Lennon con il caro Frisell (Hold On, Julia, Love) e a riscontrare la sacrosanta e necessaria inutilità di ogni cover che riguarda i Beatles. però è bello farsi raccontare ancora una volta del nostro primo amore e sciogliere il cuore alla nostalgia del tempo fuggito. certo che avrei preferito un Bill Frisell intimo ed acustico come nella conclusiva Strawberry Fields: ma il disco è il suo e John Lennon è di tutti.
buon ascolto, Give Peace A Change!

Pubblicato in 2011 | 1 commento

Dave Cloud & The Gospel Of Power
Practice In The Milky Way

sempre a proposito di dischi che si attendono; io e qualche sparuto manipolo di malsani piccoli fan attendevamo all’uscita posteriore il nostro poco salubre eroe reduce dall’ennesimo vaudeville show in quel del Springwater di Nashville. così giusto per una pacca sulla spalla, un bicchiere della staffa o uno scambio di insulti benevolo.
ma, sorpresa delle sorprese, ci vediamo comparire un Jack Torrance ripulito e rivestito a lucido che si affaccia dalla copertina del suo nuovo disco: Practice In The Milky Way (Fire, 2011). attenzione alle apparenze però: si può perdere un mucchio di pelo ma incrementare a dismisura il (già esoso) tasso di vizio.

sì perché Dave Cloud (classe 1956) può apparire come un buffo anacronismo del nostro tempo, uno che giunge tardi a festa finita con la fotta di voler disfare ogni cosa, ma la sua anagrafe racconta ben altro. chi è cresciuto nel r’n’r malsano dei fine ’70 non può essere accusato di bluffare se alza gli amplificatori a palla e continua a pestare e sudare malgrado la panza e la lascivia di un tardone. Dave Cloud è autenticamente malsano, volgare, insinuante e intralazzante come certi marpioni delle tarde ore dei bar: sputa punk e surf rock come un ragazzino ma con molta più insolenza di quanto non farebbero i suoi nipoti. e poi si abbandona a confidenziali illuminati dalle luci al neon dei lounge bar appiccicosi ed olezzanti alcool: canzoncine spastiche con la voce dell’orco, inni garage rock come se non fossimo mai usciti dai ’60, moderne cowboy’s song di camionisti in abbandono sulle rotte nazionali di una America sconosciuta, ossessioni da high school party e devianti e viziose ballate rock come se i Velvet Underground dovessero ancora arrivare!
parlando di Dave Cloud l’anno passato continuavo (e continuo) a sostenere che il r’n’r è morto proprio perché ci sono eccezioni come Cloud che ne confermano la regola. non so davvero a cosa sia utile la musica di Dave Cloud e dei suoi prestigiosi The Gospel Of Power nell’anno 2011, non so davvero dove mettere le 20 canzoni sghembe e stralunate che compongono questo Practice In The Milky Way: ciò che so è che ascoltandolo mi si allarga in volto un sorriso ebete che assomiglia a quello che potrebbero fare Frank Zappa o Captain Beefheart se stessero ascoltando: e in qualche modo sono certo che lo stiano facendo.

Pubblicato in 2011 | 4 commenti

Anthony Joseph & The Spasm Band
Rubber Orchestras

ci sono ancora dischi che si aspettano!
tacitamente, con pazienza e devozione. e a quel punto il tempo diventa un particolare insignificante: due anni e mezzo sono un’inezia passeggera. tanti ne sono passati da quando scrissi su queste pagine di quel Bird Head Son che invase letteralmente la (mia) primavera del 2009. uno di quei dischi monumentali che mette in pace il costante desiderio insanabile di ascoltare musica, che spiega ed illumina il senso taumaturgico che ha il groove sulle membra di chi guarda al suono afroamericano come si guarda l’orizzonte più prossimo alla pura bellezza.
ed è per questo che ci sono ancora dischi che si aspettano!

Anthony Joseph & The Spasm Band Rubber Orchestras (Heavenly Sweetness, 2011) è la risposta a questa attesa. medesima squadra al suo fianco. medesimo afflato poetico che fa antecedere una raccolta di testi, gli stessi declamati sulle 11 lunghe cantiche che compongono il disco. medesima vocazione da pastore nero sul pulpito della diaspora africana. un lungo viaggio a ritroso in quella involontaria migrazione e addentro a tutte le musiche che tutto questo ha comportato.
The Griot is the sound of universal culture, a vocal music from black Africa!
si da così principio a questo viaggio per chiarire immediatamente discendenze e ispirazioni per giungere alla lunga declamazione etiopica delle Generations che hanno significato e reso fiera questa diaspora. in mezzo il funky, il soul, l’afrobeat e il voodoo più misitco: difficile risalire a ritroso questa fiumana di suoni. ci viene incontro lo stesso Anthony Joseph con il suo dj (spoken) set From the Plantation to the Revolution tenuto presso il prestigioso sito Paris DJs a dipanare una matassa di influenze oramai irrimediabilmente intricate ed inscindibili.

un disco che ingombra questo tempo presente, che trae linfa dal glorioso passato e che affonda le radici dritte nel futuro a venire. a questo punto (dopo tanto attendere) sarebbe pure bello poter vedere il Black Moses dal vivo senza dover per forza raggiungere il Monte Sinai, o affidarsi alla benevolenza del monte capace di spostarsi vista la nostra impossibilità a farlo fin lassù.
comunque sia bentornato, è stata cosa buona attenderti.

Pubblicato in 2011 | 13 commenti