nel 1969 a Woodstock ci sarei potuto (anagraficamente) essere! in quei giorni di mezz’agosto che cambiarono e ridisegnarono l’idea di musica e società mi sarei presentato neonato e piagnucolante e ben poco avrei ricordato. ci sarei potuto essere ma non c’ero e poche memorie ho raccolto! eppure i ricordi, evocati dai dischi e colorati dallo schermo, in qualche modo si sono costituiti! e se posso fare una confessione, per me Woodstock è soprattutto Richie Havens. i suoi sandali, la schiena fradicia, la bocca sdentata e la pennata vigorosa. quella voce che innalza il grido di Freedom alla fine del suo set che fu il debutto ufficiale del festival.
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afroamericano di Brooklin, classe 1941. comincia a farsi le ossa (e l’ugola) cantando agli angoli delle strade il doo-wop e sulle panche della chiesa il gospel. al debutto dei ’60 è nel Greenwich assieme ad illustrissimi colleghi di nome ZImmerman, Neil e Baez e nel ’67 ottiene un contratto con la Verve che è alla ricerca di cavalli da far correre sulle praterie del folk revival! Mixed Bag resta qualcosa di seminale per la musica di lì a venire (l’ho ritrovato di recente a 3,99 euro nel bel mezzo di un cestone da supermercato, sic!). molte (e celeberrime) le covers, da Fuller a Dylan, Beatles, Lightfoot. voce nera caldissima e ruvida rubata al soul, gli accordi aperti e le pennate furiose. un giusto equilibrio fra folk, cantautorato, attitudine groove e prodromi di suono psichedelico.
nel ’69 viene quindi invitato ad aprire il grande festival e dopo un set che tra l’altro prevedeva High Flyin’ Bird, I Can’t Make It Anymore, With A Little Help From My Friends, Strawberry Fields Forever, Hey Jude e Handsome Johnny si giunge a quella benemerita Freedom (improvvisazione spontanea, e quanto mai contestuale, sulle note di Motherless Child). straordinaria performance diventata, suo malgrado, croce e delizia di tutta una carriera. da quel momento Havens verrà immancabilmente associato a quell’apparizione dal sapore mistico, immortalato ad icona.
ma la carriera è proseguita ben oltre quel 1969. e io non so ben dire se per limiti artistici propri o se per negligenza del music business ma quella carriera non è mai definitivamente decollata. eppure i dischi ci sono. non credo si possano sottovalutare Stonehenge (1970) o Alarm Clock (1971) che meritano rinnovata attenzione. e ritengo quantomeno interessanti ed esaustive le due raccolte del periodo Verve e A&M: High Flyin’ Bird: The Verve Forecast Years e Dreaming as One: The A&M Years (la prima se una delle due si deve scegliere).
e gli anni ’80 e ’90 effettivamente non hanno portato grandi glorie a Richie Havens che è rimasto intrappolato fra vecchie sonorità ritenute obsolete e incongruenze con le tendenze in voga. la sua attitudine folkster male si accompagnava con le esigenze commerciali di questi due decenni e fra raccolte e riproposizioni di celebri cover (Sings Beatles & Dylan, 1987) bene o male credo sia potuto sopravvivere.
ma come molti vecchi leoni dei ’60 e ’70 che furono ha saputo attendere e crescere nell’ombra fino a che qualcuno non ritornasse ad accorgersi di lui. nuovo millennio e nuova linfa, nuova vita.
mi imbattei per caso in Wishing Well nel 2002 e decisi di lasciarmi convincere da quell’aria da santone che si sporgeva dalla copertina, o come minimo tributargli quella fiducia che mi pareva potesse meritare. lo acquistai e lo ascoltai davvero a lungo. la voce cresciuta in profondità e complessità, un impasto travolgente e decisamente soulful. una manciata di canzoni di squisito equilibrio fra folk, sonorità indiane e grande anima soul.
nel 2004 esce Grace of the Sun che non posseggo ma che mi procurerò al più presto, e nella terda primavera di quest’anno, ed è di questo che volevo parlare, giunge Nobody Left to Crown che sto ascoltando da qualche giorno.
un disco gradevole, mi sia concesso un aggettivo tenue e per me inusuale. disco di canzoni, di chitarre e di voce. mi verrebbe quasi da dire che assomigli ai dischi di una volta! non scalerà le classifiche, cadrà assai presto nell’oblio e probabilmente è solamente destinato a vecchi fan e nostalgici eppure ci sono brani che si sostengono per coerenza e struttura, una qualità autorale che benemeriti giovinastri si sognano di raggiungere. piacevole, caldo, concreto e solare se proprio dovessi aggettivare!
scopro dal suo sito che instancabilmente è in tour da molto e per molto tempo ancora. e malgrado ad ogni performance più o meno autorevole non possa mancare la rievocazione del fantasma di cui sopra (Cannes 2008), io credo che la dignità di questo artista permanga integra e splendida in questi tempi che mi limito a definire amari. per questo Richie Havens dice Obama e anche per questo invito ad ascoltare il disco (due click: qui e qui) e poi che ciascuno tragga i suoi giudizi.
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